“Maneggi e salti”. Gli esercizi di base dell’equitazione rinascimentale (parte 3a)
di Giovanni Battista Tomassini
Nel tardo Medioevo e nel Rinascimento l’equitazione aveva una spiccata dimensione sociale. Il cavallo svolgeva una funzione simbolica essenziale nella definizione dell’identità della classi aristocratiche e interpretava un ruolo centrale nella maggior parte delle manifestazioni pubbliche, nelle quali contribuiva con la sua forza ed eleganza, ma anche con lo sfarzo delle sue bardature a far brillare la nobiltà al cospetto del popolo. L’equitazione era inoltre parte integrante dei rituali di corte. Non è un caso che una parte del primo trattato equestre pubblicato a stampa, Gli ordini di cavalcare (1550) di Federico Grisone, fosse dedicata a come presentare un cavallo al cospetto di un principe, o di un re. In queste occasioni, così come nel corso delle fasi cerimoniali che precedevano i combattimenti nelle giostre, cavalli e cavalieri eseguivano esercizi volti a mostrare al pubblico l’energia dell’animale e l’ardimento e la bravura di chi lo montava. Si trattava per lo più di quelli che oggi conosciamo come “salti di scuola” o “arie rilevate”.
Contrariamente a una credenza piuttosto diffusa, questi esercizi avevano una finalità eminentemente estetica e non militare. Gli autori rinascimentali e successivi sono su questo unanimi. Non solo i salti, ma addirittura le “posate” erano considerate da Fiaschi pericolose per il cavallo da usare in combattimento, perché nel momento in cui si sollevava sui posteriori l’animale veniva a trovarsi in una condizione di vulnerabilità rispetto alla carica di un eventuale avversario.
… se si vuole qualche posata farla, ma che non siano molto alte, perché oltre, che sarebbe brutto vedere il cavallo in tal modo accostumato, sarebbe ancho di danno ogni volta che così facesse se li fusse dato incontro; perché facilmente si potria battere a terra. Et questo anchor è che mi fa spiacer tante possate, massimamente nel cavallo da guerra (Fiaschi, 1556, II, 5, p. 99).
Opinione condivisa da Claudio Corte, autore de Il cavallarizzo (1562), secondo il quale il rischio maggiore era che una volta addestrato alle posate e alle corvette il cavallo potesse eseguirle di propria iniziativa, per sottrarsi al controllo del cavaliere, lasciandolo così esposto agli attacchi dei suoi avversari.
Hor perché i cavalli giovani imparano facilmente le pesate, e di poi che le hanno imparate le fanno volentieri, parendoli, che come le hanno fatte, non habbino à far altro: e che battuti per questo col sprone: non habbino se non à fermarsi e pesarsi, si fermano bene spesso à farle contra il voler del cavalcatore; e in luogo dove non si richiede; e le fanno anco più alte di quello non si conviene. (CORTE, 1562, II, 15, p. 71r).
Ancora più esplicito sulla finalità esclusivamente ludica dei salti di scuola e sulla loro nocività per i cavalli da impiegare in guerra è Pasquale Caracciolo, autore del monumentale trattato La gloria del cavallo (1567). Secondo lo scrittore e cavaliere napoletano, addestrare un cavallo ai salti non solo lo rendeva bellissimo da vedere, ma allo stesso tempo ne aumentava l’agilità e la sensibilità agli aiuti. Bisognava però prima valutare attentamente le attitudini dell’animale, che doveva avere particolari doti di forza e docilità. Caracciolo considerava però un grave errore addestrare a questi esercizi un cavallo da guerra, visto che secondo lui in battaglia non solo non producevano alcun beneficio, ma potevano piuttosto arrecare danno.
Stimerà forse alcuno soverchia, e vana cosa, che l’huomo s’affatichi di insegnar questi salti al suo cavallo; ma e’ s’inganna; perché oltre che vien bellissimo a vedere un cavallo, che vada ondeggiante di gruppo in gruppo; certamente con queste dottrine alleggerendosi di braccia, e di gambe, diviene più agile, e più pronto a tutte l’altre virtù, che si richiedono; si come il giuoco della palla al cavaliere se ben non è necessario quanto a se, non si può tuttavia negare che oltre un certo che di ornamento, non gli sia molto giovevole ad addestrarlo all’armeggiare. Bisogna ben sopra tutto considerare la taglia, l’habilità, e la propria inclinazione de l’animale; che quando tai cose vi concorressero, non saria da dubitarsi, che a nobili giovani attendenti a star bene in sella, non fusse utile, e onorevole di ammaestrare i loro cavalli a tai maneggi, co’ quali di giorno in giorno si fariano più destri, e più leggieri; servandosi la temperanza, e’l prescritto ordine. Ma essendo un cavallo assai veloce, ò di qualità propriamente al guerreggiare, sciocco sarebbe chi si mettesse ad essercitarlo in questi salti, e in questi gruppi; i quali nella militia apporteriano più tosto impedimento, e danno, che beneficio alcuno al Cavaliere, com’altre volte s’è detto (CARACCIOLO, 1567, p. 426)
D’altra parte, come spiega bene Jean-Claude Barry, per diciassette anni ecuyer del Cadre Noir e grande esperto del lavoro dei “saltatori”: «conoscendo la preparazione e la precisione che richiedono, è difficile immaginare di eseguire le arie rilevate nel quadro di uno scontro in cui rapidità e prontezza di reazione sono vitali e in cui qualsiasi azione involontaria o imprecisa del cavaliere potrebbe essere fraintesa dal cavallo. Per di più il peso della bardatura e del cavaliere in armatura era un handicap per il destriero e ne limitava l’agilità» (Barry, 2005, p.26).
Le arie rilevate praticate all’epoca differivano leggermente da quelle tuttora eseguite nelle grandi accademie d’arte equestre classica, come quella di Vienna, Saumur, Jerez e Lisbona, che si rifanno prevalentemente alla codificazione di questi esercizi avvenuta nel XVIII secolo. Sfortunatamente, gli autori dei trattati rinascimentali davano per scontato il fatto che i loro lettori conoscessero gli esercizi dei quali parlavano e per questo non ci hanno fornito descrizioni approfondite e chiare. Allo stesso modo, con la sola eccezione del trattato di Cesare Fiaschi, le opere del XVI secolo non presentano illustrazioni significative, che possano chiarire come venisse intesa l’esecuzione dei diversi esercizi. Questo rende oggi più problematica l’esatta individuazione delle specifiche caratteristiche dei diversi tipi di salto che sono citati nelle opere dei maestri rinascimentali. Per cercare quindi di rendere più esplicita e precisa la descrizione che segue ci avvarremo, oltre che delle illustrazioni tratte dal libro di Fiaschi, anche di quelle pubblicate in opere successive, come quella del duca di Newcastle, e come Il cavallo da maneggio, del conte napoletano Giovanni Battista Galiberto, colonnello e maestro d’equitazione, al servizio del re d’Ungheria e Boemia Ferdinando IV. Sebbene l’opera sia stata pubblicata a Vienna nel 1650, cioè esattamente un secolo dopo quella di Grisone, si rifà chiaramente alla terminologia e alle tecniche dell’equitazione di scuola italiana rinascimentale.
Nel libro di Fiaschi troviamo innanzitutto citato il cosiddetto “galoppo raccolto”. Di quest’aria l’autore non fornisce alcuna descrizione, ma sottolineando la difficoltà di spiegarne, a parole o con un disegno, l’esecuzione aggiunge lo spartito, sottolineando che «quella misura e tempo bisogna osservare se si vuole che il cavaliere faccia un aggruppar di bella vista» (FIASCHI, 1556, II, 11, p. 114). Con il verbo “aggruppare” ritengo che l’autore voglia intendere “eseguire salti”, che vengono in altri testi definiti anche “groppi” (probabilmente da “groppa”). Per eseguire questo esercizio, Fiaschi dice che il cavaliere deve mantenere il cavallo riunito, stimolandolo con i polpacci e trattenendolo ritmicamente con la briglia, in modo che «si muova quel tanto che ondeggi un pochetto» (FIASCHI, 1556, II, 11, p. 114). A giudicare da queste indicazioni e anche dall’illustrazione a corredo sembra possibile identificare il “galoppo raccolto” con ciò che oggi conosciamo come tette a terre, una sorta di galoppo in due tempi, in cui il cavallo passa alternativamente dagli anteriori ai posteriori e che, a partire dal XVIII secolo diviene l’aria di preparazione di tutti i salti di scuola.
Altro esercizio indicato da Fiaschi è il cosiddetto “maneggio con salti a balzi”. Difficile capire in cosa consistesse questo esercizio. Di un aria chiamata “balzotto” parla Pasquale Caracciolo, ma anche lui non spiega di cosa si tratti. Secondo Barry, si tratterebbe di quella che successivamente è stata chiamata ballotade, un salto nel quale il cavallo salta in orizzontale e slancia i posteriori, come se volesse scalciare, ma senza distenderli interamente. In realtà, però l’illustrazione del libro di Fiaschi mostra il cavallo con le quattro zampe sollevate da terra, ma con i posteriori sotto la massa corporea.
Un’aria citata da diversi autori è il cosiddetto “maneggio a misura di un passo e un salto”, che veniva praticata anche nella variante di “due passi e un salto”. Claudio Corte (II, 19) spiega che veniva insegnata ai cavalli abituandoli a saltare dei pezzi di tela tenuti tesi da aiutanti a terra, posti a due o tre passi di distanza l’uno dall’altro. In pratica, il cavallo doveva spiccare un salto ogni uno o due falcata di galoppo. Questo esercizio veniva anche chiamato “galoppo gagliardo”. Dalla descrizione che ne dà Claudio Corte, sembra di intuire che si trattasse di una sequenza di salti simili alla capriola, intervallati da due, oppure tre falcate di galoppo:
Ne vi crediate già, che per quel che s’è detto, la capriola, & il passo, e un salto, over galoppo gagliardo siano una cosa medesima, perche la capriola, come vi fu detto, va di passo in passo saltando, e l’un salto subito seguita l’altro, che’l galoppo gagliardo non fa così ma va di dui in dui, over di tre in tre, come più pare meglio al cavalliere: & i salti ancora sono con calci sempre, che quella non li spara sempre; possendoli però sparare. Nel galoppo gagliardo, che così si dee dire più presto che un passo, e un salto, essendo che il salto si piglia al secondo & terzo passo (CORTE, 1562, II, 19, p. 74v).
Un tipo di salto citato da tutti i libri dell’epoca è il salto “a montone”, così detto, spiega Pasquale Caracciolo, «perché viene il cavallo a saltare in quella guisa, che saltano i Montoni» (CARACCIOLO, 1567, p. 425). Si tratta di un’aria in cui il cavallo salta sul posto e, scalciando, ricade nella stessa posizione. Secondo Fiaschi, era proprio questa caratteristica a distinguerlo dai “salti e balzi”:
perché quando ‘l cavallo fa ‘l salto a balzo, si spinge con la vita avanti, et questo a montone fatto come dee, bisogna ch’esso cada dirittamente nel luogo di dove si leva, montando anchor più alto. (FIASCHI, 1556, II, 15, p. 122)
Infine, il salto più diffuso è la cosiddetta “capriola”, la più spettacolare della arie rilevate tuttora praticata. Consiste in un salto in cui, quando si trova in aria, il cavallo scalcia con la maggiore violenza possibile. Secondo Fiaschi, la “capriola” differisce dal salto “a montone”, perché in questo caso, saltando il cavallo avanza e non ricade nello stesso luogo. All’epoca, il cavallo veniva fatto scalciare nella fase discendente della parabola del salto e atterrava sugli anteriori, mentre oggi generalmente il cavallo distende i posteriori al culmine del salto:
Quando si vorrà maneggiar il cavallo con salto o salti alla capriola, cosi chiamati perché di tal modo saltano i capri, si dee operare che facciano come essi fanno quando saltano, che nel cadere a terra levano l’anche (FIASCHI, 1556, II; 16, p. 124).
Molto diffuse erano anche le “corvette”, salto di scuola in cui il cavallo solleva gli anteriori e poi procede a balzi sui posteriori. Secondo Corte, proprio questo movimento caratteristico sarebbe alla base dell’etimologia del nome, poiché «corvetta si dice dal corvo, quando ch’egli è in terra, & va così à saltetti innanzi» (CORTE, 1562, II, 15, p. 72r). Era considerata un’aria di presentazione per eccellenza e veniva spesso eseguita nelle cavalcate pubbliche come atto di galanteria al cospetto delle dame.
I cavalli venivano inoltre tutti addestrati a “sparar calci”, in preparazione dei salti di scuola. È da ritenersi che questo fosse un addestramento condiviso anche dai cavalli da guerra, che venivano indotti a scalciare a comando nelle mischie, come mostra un particolare del celebre quadro di Paolo Uccello, Disarcionamento di Bernardino della Ciarda (1438-1440), in cui si nota un sauro con entrambi i posteriori sollevati nell’atto di scalciare.
Infine, abbiamo visto in un altro articolo (Il passo spagnolo: aria classica o trucco da circo?) che tra le arie di presentazione figurava anche quello che oggi chiamiamo “passo spagnolo” e che all’epoca si diceva “far ciambetta”.
Con questa disamina delle arie di presentazione si conclude la nostra panoramica dei principali esercizi descritti, o citati, nei trattati italiani d’equitazione di epoca rinascimentale (si vedano gli articoli precedenti: Parte 1 e Parte 2). Ovviamente, questa descrizione sintetica non pretende di rappresentare esaustivamente il vasto campo delle pratiche equestri dell’epoca, ma mira soprattutto ad evidenziare alcuni aspetti rimasti invariati nel corso dei secoli, così come a sottolineare alcune differenze significative.
Bibliografia
BARRY, Jean-Claude, Traité des Airs relevés, Paris, Belin, 2005.
BARRY, Jean-Claude, Les airs relevés et leur histoire, in AA.VV., Les Arts de l’équitation dans l’Europe de la Reinassance. VIIe colloque de l’Ecole nationale d’équitation au Chateau d’Oiron (4 et 5 octobre 2002), Arles, Actes Sud, 2009, pp. 183-196.
CARACCIOLO, Pasquale, Gloria del cavallo, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, (in 4°), 1566.
CORTE, Claudio, Il Cavallarizzo, Venezia, Giordano Zilletti, 1562.
FIASCHI, Cesare, Trattato dell’imbrigliare, atteggiare e ferrare cavalli, Bologna, Anselmo Giaccarelli, 1556.
GALIBERTO, Giovanni Battista, Il cavallo da maneggio, ove si tratta della nobilissima virtù del..,Vienna, Giacomo Kyrneri, 1650.