Cinque secoli ripercorsi al galoppo. L’equitazione in Italia prima di Caprilli

 

di Giovanni Battista Tomassini

Il testo dell’intervento tenuto al convegno Federigo Caprili: sempre attuale? organizzato dal Centro Studi della Federazione Italiana Sport Equestri, presso la Biblioteca Militare Centrale a Roma. Si è trattato di un incontro di grande interesse al quale si spera seguiranno altre occasioni di approfondimento e divulgazione della cultura equestre in Italia (per ulteriori dettagli sull’evento vi rimando all’articolo di Patrizia Barsotti su Cavallo 2000: http://www.cavallo2000.it/detail/federigo_caprilli__cavaliere_gentiluomo_e_rivoluzionario-id_19223.htm)

Vorrei innanzitutto ringraziare il presidente Di Paola e la FISE – oltre alla mia amica e collega Maria Lucia Galli che mi ha cortesemente coinvolto – per l’organizzazione di questo convegno. Era ora! Occasioni come questa andrebbero moltiplicate sul territorio e aperte il più possibile al pubblico dei tesserati e degli appassionati d’equitazione, perché ogni occasione di discutere e riflettere sulla cultura equestre giova al movimento italiano, divulgando una maggiore consapevolezza e aumentando il coinvolgimento dei praticanti. Grazie quindi dell’invito e complimenti per l’iniziativa.

Permettetemi di cominciare il mio intervento con una divagazione personale. Se c’è una cosa che proprio non mi piace del mio lavoro di responsabile della redazione cultura di un telegiornale (nella fattispecie è il Tg3, ma vale per tutti) sono i i servizi commemorativi, quelli che si fanno in occasione della morte di un personaggio più o meno famoso e che tradiscono un’attitudine tipica della cultura italiana, che è quella di ignorare o sottovalutare in vita le persone di talento, per poi mitizzarle nello spazio di un pomeriggio in occasione della loro morte. A quel punto, si scopre sempre che erano geni che hanno onorato la Nazione. Se ne fa un ritratto stereotipato e pieno di superlativi, che sempre tradisce la complessità della loro esperienza umana. Nella maggior parte dei casi, poi li si mette nella teca dei Padri della Patria a prender polvere e li si dimentica. In altri casi, invece, la loro figura resta circonfusa di quest’aura di mito, che impedisce però di apprezzarne effettivamente il lascito culturale.

Se ci pensate bene, è un po’ quello che è successo a Caprilli. Dopo la sua tragica morte (1907), i suoi epigoni, si sono eretti a inflessibili custodi di una presunta ortodossia, che a una persona così insofferente delle gerarchie come lui fu in vita, probabilmente non sarebbe affatto piaciuta. Caprilli ha finito così per essere mitizzato. E questo non giova mai, perché coi miti non si dialoga. E spesso non li si capisce. È cosi che si è prevalentemente interpretata la profonda innovazione tecnica introdotta dal suo sistema naturale d’equitazione, come una cesura: una vera e propria rottura con un passato da rifiutare in blocco. In questo modo si è finito per perdere di vista il percorso storico-culturale che porta sino a Caprilli e soprattutto per dimenticare quello che, nel mondo equestre e in particolare in Italia, c’era stato prima di lui.

Se appunto non ci si fa abbagliare dal mito, è invece facile cogliere come il primato – in termini di prestigio oltre che di risultati sportivi – che l’equitazione italiana ha riconquistato ai primi del Novecento, proprio grazie alle innovazioni introdotte da Caprilli, da un un punto di vista storico e culturale porta a compimento una parabola iniziata più di quattro secoli prima. Quando noi parliamo del Rinascimento pensiamo sempre alle arti, all’architettura, magari alla letteratura, forse alla musica. Non certo all’equitazione. E invece dovremmo. Perché il Rinascimento è stata essenzialmente una grande rivoluzione culturale che ha prodotto la trasformazione dell’uomo medievale nel moderno gentiluomo di corte. E in questa trasformazione l’equitazione ha giocato un ruolo essenziale. Se voi prendete Il libro del corteggiano di Baldassare Castiglione, che è il più esplicito manifesto di questa rivoluzione culturale e antropologica, sarete sorpresi di scoprire che è tutto intessuto di riferimenti all’equitazione e alla cultura cavalleresca. D’altra parte, è facilmente comprensibile, se si riflette sul ruolo fondamentale che il cavallo aveva in quell’epoca e in quella società. Un ruolo che ancor più che utilitaristico era simbolico, perché il cavallo rappresentava l’emblema di una classe sociale, che era quella dominante: l’aristocrazia. Solo i nobili infatti si potevano permettere di possedere e mantenere cavalli. Non ha caso il termine “cavaliere” era sinonimo di aristocratico.

Proprio perché la cultura italiana ha avuto il ruolo di vero e proprio motore del Rinascimento, anche l’equitazione, tra Quattro e Cinquecento, in Italia ha raggiunto un livello di estrema raffinatezza tecnica (per lo meno per gli standard dell’epoca), tanto che quasi tutte le corti europee che potevano permetterselo avevano un cavallerizzo italiano e cavalli provenienti dai prestigiosi allevamenti nostrani, come quelli del Regno di Napoli, oppure dei marchesi e poi duchi di Mantova. Non sorprende quindi che proprio in Italia, alla metà del Cinquecento, furono stampati i primi manuali, allora li si definiva trattati, d’equitazione.

 

Il cavallo da guerra veniva addestrato a eseguire una carica rettilinea
e poi una rapida mezza volta, per tornare a caricare nella direzione opposta.

Cesare Fiaschi, maneggio di mezzo tempo, 1556

 

Da un punto di vista tecnico quell’equitazione era molto diversa da quella di Caprilli, perché ubbidiva a esigenze completamente differenti e, aspetto da non sottovalutare, veniva praticata con cavalli morfologicamente diversi. Semplificando molto, per motivi di tempo, possiamo dire che nei trattati equestri vengono descritti due principali impieghi del cavallo: uno di tipo militare, l’altro di tipo ludico, o spettacolare. Il primo consisteva nell’addestrare il cavallo “all’uso della guerra” e in particolare a eseguire una carica in avanti per andare all’incontro del nemico, fermarsi, voltare sulle anche e ripartire verso un nuovo scontro.  È la cosiddetta passade, vale a dire una carica rettilinea, al termine della quale il cavallo doveva arrestarsi e voltare nel più breve spazio possibile, in modo da eseguire immediatamente un’altra carica.

 

William Cavendish, Duke of Newcastle, Passade, 1657

 

Come abbiamo detto prima, il cavallo aveva però anche un essenziale valore simbolico. Non c’era praticamente cerimonia pubblica laica che non prevedesse l’esibizione di cavalli quale simbolo di potere. Per questo vennero elaborati una serie di esercizi di abilità che dovevano dimostrare la forza dell’animale, esaltando così al contempo le qualità del cavaliere che ne dominava l’impeto.

 

I salti di scuola vengono tuttora eseguiti nelle Scuole che tengono viva la tradizione accademica

 

Questi esercizi erano i cosiddetti salti di scuola, come la capriola, la corvetta, ecc. dei quali è rimasta memoria nelle cosiddette arie rilevate, o alte, praticate ancora oggi nelle accademie di equitazione, come la Scuola Spagnola di Vienna, o il Cadre Noir, francese. Tuttora molti sostengono che questi esercizi avessero una finalità militare e venissero impiegati in battaglia, ma basta osservare la complessa preparazione che precede la loro esecuzione per comprendere che non era così. D’altra parte, gli autori rinascimentali li descrivono appunto come prove d’abilità da eseguire quando si presenta un cavallo davanti a un principe (Grisone) e sconsigliano di insegnarli a cavalli destinati alla guerra (Fiaschi), per evitare che li eseguano nel corso di una mischia.

 

Nell’equitazione “a la brida” il cavaliere era ben inforcato
in sella e portava le gambe distese e i piedi in avanti
Pisanello, Visione di Sant’Eustachio (dettaglio), 1436-38

 

Anche l’assetto dei cavalieri era diverso da quello moderno. Semplificando drasticamente per ragioni di tempo, possiamo distinguere due modi principali.  Il primo, detto “a la brida”, derivava dall’uso della cavalleria pesante medievale, ed era caratterizzato dalla staffatura lunga. Il cavaliere era ben inforcato in sella e portava i piedi in avanti Molti storici dell’equitazione considerano questo modo di montare a cavallo tipico del Nord Europa, anche se in realtà il suo uso è ampiamente documentato anche nei paesi meridionali, come l’Italia.

 

Nell’equitazione “alla ginetta”, il cavaliere era staffato corto
e portava le gambe piegate

Pirro Antonio Ferraro, cavallo frenato, 1602

 

Nell’altro modo invece le staffe venivano portate più corte e, conseguentemente, il cavaliere teneva le gambe piegate. Questo consentiva un contatto più immediato e preciso degli “aiuti inferiori” con i fianchi del cavallo. Era il cosiddetto modo “alla ginetta”. Si trattava di una tecnica tipica della penisola iberica, di chiara derivazione nord africana. Questo modo di cavalcare si diffuse rapidamente nei domini dell’impero spagnolo e in particolare nell’Italia meridionale. Oggi se ne conserva una traccia ancora molto fedele nella doma vaquera spagnola.

Così come ai primi del Novecento cavalieri di tutto il mondo venivano a Pinerolo e a Tor di Quinto per imparare il sistema naturale di Caprilli, anche nel Cinquecento molti giovani aristocratici stranieri affrontavano un viaggio, che all’epoca era anche piuttosto difficoltoso, per venire a imparare dai maestri d’equitazione italiani. Il più famoso di questi è ovviamente Giovan Battista Pignatelli, il cui nome è stato tramandato e reso internazionalmente famoso da due dei suoi allievi più illustri: Salomon de La Broue , che tornato in Francia per primo pubblicò un trattato d’equitazione nel suo paese, e Antoine de Pluvinel che fu maestro d’equitazione del re di Francia Luigi XIII e a sua volta scrisse un libro nel quale tributò un omaggio sentito alla sapienza del suo mentore italiano.

 

La pubblicazione dei trattati dei due allievi francesi di Pignatelli,
La Broue e Pluvinel, segna l’ideale passaggio di consegne
tra la cultura equestre italiana e quella francese

 

La pubblicazione di questi due libri da parte di autori francesi segna una sorta di ideale passaggio di consegne, tra l’equitazione italiana e quella d’oltralpe. Per ragioni storiche, politiche, persino demografiche, nel XVII e XVIII secolo la cultura italiana perse il ruolo trainante che aveva avuto tra Quattro e Cinquecento. Lo stesso accadde in campo equestre. Le innovazioni tecniche più significative, in quegli anni sono testimoniate dalle opere di autori come appunto Pluvinel, o il duca di Newcastle, che raccoglievano l’eredità culturale della tradizione equestre italiana del rinascimento e provavano a proiettarlo nel futuro. È una storia complessa e affascinante, che non posso ripercorrere approfonditamente qui. Mi limito a ricordare che nel 1733 François Robichon de La Guérinière (1688-1751) pubblica la sua Ecole de cavalerie, un libro in cui riassume in una sintesi chiarissima la tradizione equestre dei secoli precedenti, trascendendola però in un innovativo programma di ginnastica razionale del cavallo, che è alla base del moderno dressage.

 

L’Ecole de cavalerie di La Guérinière riassume in una sintesi chiarissima
la tradizione equestre dei secoli precedenti, trascendendola
però in un innovativo programma di ginnastica razionale del cavallo

 

Tra Sette e Ottocento accade qualcosa nella cultura europea che avrà significativi riflessi anche in campo equestre. È a partire dal XVIII secolo che in Europa si diffonde un crescente interesse per l’Inghilterra, le sue istituzioni, la sua moda e i suoi usi. In un continente ancora dominato dall’assolutismo, la monarchia costituzionale britannica e il crescente benessere economico facevano del Regno Unito un faro di modernità. Dall’abbigliamento al cibo, dal gioco allo sport l’Inghilterra divenne un modello da imitare.

 

A partire dal XVIII secolo, anche in campo equestre,
in Europa si comincia a guardare all’Inghilterra come un modello da imitare.
James Seymour, Mr Russell on his Bay Hunter, c.1740, Tate Modern Gallery

 

Anche l’equitazione venne investita da questa moda e anzi proprio l’ambito equestre rappresentò il terreno d’elezione per la diffusione del gusto “all’inglese”. In Inghilterra si erano sviluppate pratiche differenti, che progressivamente cominciarono a diffondersi nel vecchio continente. In particolare, in Inghilterra, già a partire dal XVII secolo, si era affermata la passione per le corse di velocità e per la caccia. Per queste esigenze, già nel tardo Cinquecento, era cominciata la lenta selezione di una nuova razza di cavalli: agili, nevrili, veloci. Il purosangue inglese era meno adatto alla studiata lentezza degli esercizi accademici, ma perfetto per competere col vento sui prati di Newmarket, oppure per affrontare gli ostacoli naturali di cui erano disseminate le tenute inglesi, inseguendo una volpe, o un cervo.

 

Le differenti caratteristiche morfologiche dei cavalli inglesi
stimolarono l’evoluzione della tecnica equestre

James Seymour, Jumping the Gate, Denver Museum

 

Le differenti caratteristiche morfologiche dei cavalli inglesi e soprattutto il loro impiego nelle corse e nelle cacce in campagna stimolarono in Inghilterra anche l’evoluzione di un modo differente di cavalcare rispetto all’equitazione accademica, allora ancora prevalente nel resto d’Europa. L’innovazione più vistosa fu l’introduzione del trotto sollevato, detto appunto all’inglese, che si accompagnava a un assetto con staffatura più corta e a una posizione del busto leggermente inclinata in avanti. Questa tecnica si avvaleva anche di strumenti necessariamente diversi, a cominciare dalla sella rasa, con pomo e paletta poco rilevati, e dal filetto che, in molti casi veniva associato a un morso, con guardie più corte di quelle tradizionali, comandato da una seconda redine. Il diffondersi anche nell’Europa continentale di questo nuovo modo di cavalcare “all’inglese” suscitò un vivace dibattito. Tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, i praticanti e gli appassionati si divisero tra entusiasti e assolutamente contrari (troviamo un’interessante testimonianza di questa controversia in un capitolo del libro di Federico Mazzucchelli Scuola equestre, 1805 ). Alla fine però la moda all’inglese finì per affermarsi, così come la diffusione del cavallo purosangue. Cambiamenti questi che rappresentano le premesse delle successive intuizioni di Federico Caprilli.

 

La diffusione della moda inglese è evidente in questo quadro:
i cavalieri sono vestiti esattamente, come era vestito il protagonista
del quadro di Seymour un secolo prima

Filippo Palizzi, Caccia nella campagna napoletana, 1847

 

Permettetemi infine di concludere questa mia furiosa galoppata attraverso i secoli, citando Pasquale Caracciolo, che nella seconda metà del Cinquecento, nel suo monumentale libro La gloria del cavallo scriveva: “Il cavaliere che non cerca d’imitare i suoi passati non devria vantarsi d’essere disceso da quelli; perché quanto più grande è stata la fama de’ padri, tanto più è biasimevole la negligenza de’ figli.” (Pasquale Caracciolo, La Gloria del cavallo, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1566, p. 44). Insomma: è fondamentale tener viva la consapevolezza dell’importanza della tradizione equestre che abbiamo alle spalle, ma la memoria non basta. Tutti – studiosi, praticanti, dirigenti – dobbiamo impegnarci per essere all’altezza di questo passato così importante, per guardare al futuro, con speranza e fiducia.

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