Senza cavalli non son neppur mezzo. La passione equestre di Vittorio Alfieri. Parte 2
di Giovanni Battista Tomassini
Nella prima parte di questo articolo abbiamo scoperto la grande passione di Vittorio Alfieri per i cavalli e l’equitazione, ripercorrendo i suoi esordi in campo equestre, le sue prime imprese (equestri e mondane) in Inghilterra e l’acquisto di due magnifici cavalli andalusi, durante un viaggio in Spagna.
Rientrato in Italia, dopo diversi anni trascorsi viaggiando in lungo e in largo per l’Europa, Alfieri cominciò a manifestare interesse per la poesia e ad abbozzare le prime opere letterarie. A quell’epoca, il lusso di mantenere i suoi amati cavalli gli appariva in contrasto con la sua vocazione di scrittore. Nel 1773 ne possedeva addirittura dodici:
Intanto per allora la divagazione somma e continua, la libertà totale, le donne, i miei ventiquattro anni, e i cavalli di cui avea spinto il numero sino a dodici e più, tutti questi ostacoli potentissimi al non far nulla di buono, presto spegnevano od assopivano in me ogni qualunque velleità di divenire autore (ALFIERI, 1967, p. 135).
Ben presto però un nuovo innamoramento lo distrasse dalla poesia e dai cavalli. L’amore per Gabriella Falletti, moglie di Giovanni Antonio Turinetti, marchese di Piero, fu per Alfieri come una lunga malattia, fatta di temporanee guarigioni e ineluttabili ricadute. Alla fine, nel 1775, riuscì finalmente a liberarsene imboccando decisamente la strada dell’arte, ma anche lenendo le ferite del corpo e dello spirito con l’equitazione.
Andava bensì cavalcando nei luoghi solitari, e questo soltanto mi giovava un poco si allo spirito che al corpo (ALFIERI, 1967, p. 143).
Negli anni successivi, Alfieri compì diversi viaggi in Toscana, per impararvi, lui piemontese, l’italiano. Infine, nel 1778, decise di stabilirsi definitivamente in quel paese e di dedicarsi interamente all’attività letteraria. A questo scopo, decise anche di donare i propri beni alla sorella, garantendosi una rendita. Nell’attesa che la donazione si perfezionasse, Alfieri fantasticava sul suo futuro, risoluto a tagliare ogni legame con il proprio paese d’origine e a dedicarsi alla letteratura, anche a costo di affrontare lo spettro della povertà. E anche in queste sue elucubrazioni, i cavalli avevano la loro parte:
In quei deliri di fantasia, l’arte che mi si presentava come la più propria per farmi campare, era quella del domacavalli, in cui sono o mi par d’essere maestro; ed è certamente una delle meno servili. Ed anche mi sembrava che questa dovesse riuscirmi la più combinabile con quella di poeta, potendosi assai più facilmente scriver tragedie nella stalla che in corte. (ALFIERI, 1967, p. 184)
Non appena ebbe perfezionato la donazione dei suoi beni e l’operazione finanziaria che doveva garantirgli un vitalizio, tornò subito a rifornire la sua scuderia. Da qualche tempo aveva avviato una nuova relazione con un’altra donna sposata, Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d’Albany, animatrice d’uno dei più vivaci salotti letterari della sua epoca, che gli restò accanto per tutta la vita e anche dopo (è infatti sepolta accanto al poeta, nella chiesa di Santa Croce a Firenze).
Agli inizi della loro relazione, però, il fatto che la contessa d’Albany fosse sposata, imponeva ai due amanti lunghi periodi di separazione. E proprio per sfuggire al tedio di uno di questi momenti di distacco, nel 1783 Alfieri intraprese un nuovo viaggio in Francia e Inghilterra, al quale è legata la più memorabile delle sue imprese equestri. A Londra, infatti, Alfieri si proponeva di comprare dei cavalli inglesi, che all’epoca erano sempre più apprezzati e, da lì a pochi anni, sarebbero diventati i cavalli più alla moda.
Giunto in Londra, non trascorsero otto giorni, ch’io cominciai a comprar dei cavalli; prima un di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro, e successivamente essendomene o andati male o morti vari polledri, ricomprandone due per un che morisse, in tutto il marzo dell’anno ‘84, me ne trovai rimanere quattordici. (ALFIERI, 1967, p. 216)
Trascorsi circa quattro mesi, quando ormai era già il 1784, per Alfieri e per la sua mandria venne il momento di tornare in Italia. Un viaggio che all’epoca era già di per sé assai avventuroso. Figuriamoci a doverlo fare con quattordici cavalli al seguito!
Avviatomi nell’aprile con quella numerosa carovana, venni a Calais, poi a Parigi di nuovo, poi per Lione e Torino mi restituii in Siena. Ma molto è più facile e breve il dire per iscritto tal gita, che non l’eseguirla, con tante bestie. Io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo mi avvelenavano il piacere che avrei avuto della mia cavalleria. Ora questo tossiva, or quello non volea mangiare: l’uno azzoppiva, all’altro si gonfiavan le gambe, all’altro si sgretolavan gli zoccoli, e che so io; egli era un oceano continuo di guai, ed io n’era il primo martire. (ALFIERI, 1967, p. 217)
La prima difficoltà fu traghettarli al di là della Manica. All’affezionato padrone si stringeva il cuore a vederli stipati nella nave, “avviliti e sudicissimi”, e poi, una volta giunti a Calais, calati in mare con un paranco, perché a causa della marea, non si poteva approdare sino all’indomani. Il viaggio poi proseguì attraverso Parigi, Amiens e Lione. Ma la vera impresa fu il passaggio delle Alpi, attraverso il valico del Moncenisio. All’epoca la strada era assai impervia e a tratti pericolosa. Per questo, Alfieri organizzò la spedizione molto accuratamente e senza badare a spese.
Io presi dunque in Laneborgo un uomo per ciascun cavallo, che lo guidasse a piedi per la briglia cortissimo. Ad ogni tre cavalli, che l’uno accodato all’altro salivano il monte bel bello, coi loro uomini, ci avea interposto uno dei miei palafrenieri che cavalcando un muletto invigilava su i suoi tre che lo precedevano. E così via via di tre in tre. In mezzo poi della marcia stava il maniscalco di Laneborgo con chiodi e martello, e ferri e scarpe posticce per rimediare ai piedi che si venissero a sferrare, che era il maggior pericolo in quei sassacci. Io poi, come capo dell’espedizione, veniva ultimo, cavalcando il più piccolo e il più leggiero de’ miei cavalli, Frontino, e mi tenea alle due staffe due aiutanti di strada, pedoni sveltissimi, ch’io mandava dalla coda al mezzo o alla testa, portatori de’ miei comandi. Giunti in tal guisa felicissimamente in cima del Monsenigi, quando poi fummo allo scendere in Italia, mossa in cui sempre i cavalli si sogliono rallegrare, e affrettare il passo, e sconsideratamente anco saltellare, io mutai di posto, e sceso di cavallo mi posi in testa di tutti, a piedi, scendendo ad oncia ad oncia; e per maggiormente anche ritardare la scesa, avea posti in testa i cavalli i più gravi e più grossi; e gli aiutanti correano intanto su e giù per tenerli tutti insieme senza intervallo nessuno, altro che la dovuta distanza. Con tutte queste diligenze mi si sferrarono nondimeno tre piedi a diversi cavalli, ma le disposizioni eran sì esatte, che immediatamente il maniscalco li poté rimediare, e tutti giunsero sani e salvi alla Novalesa, coi piedi in ottimo essere, e nessunissimo zoppo. (ALFIERI, 1967, p. 218-219)
Con grande autoironia, Alfieri scrive che di quest’impresa si “teneva poco meno che Annibale per averci un poco più verso il mezzogiorno fatto traghettare i suoi schiavi e elefanti” (ALFIERI, 1967, p. 218-219). Allo stesso modo ammetteva la “stravagante vanità” di gonfiarsi d’orgoglio ogni volta che qualche intenditore gli faceva i complimenti per la bellezza dei suoi esemplari. Così come accadde durante il suo soggiorno a Pisa, nel 1785, quando assistette al Gioco del Ponte, quindi alla “luminara” per la festa di San Ranieri (16 giugno) e partecipò alle pubbliche celebrazioni per la visita del re e della regina di Napoli (Ferdinando I di Borbone e Maria Carolina d’Asburgo-Lorena), in visita al Granduca Leopoldo.
La mia vanaglorietta in quelle feste rimase bastantemente soddisfatta, essendomi io fatto molto osservare a cagione de’ miei be’ cavalli inglesi, che vincevano in mole, bellezza e brio quanti altri mai cavalli vi fossero capitati in codest’occasione. (ALFIERI, 1967, p. 234)
La conclusione dello scrittore è però amara. Perché quell’ingenuo orgoglio s’accompagnava alla consapevolezza che in Italia gli era assai più facile essere notato e riconosciuto perché sfoggiava un bene di lusso, come erano i suoi cavalli, piuttosto che per i suoi meriti letterari. Tutto sommato, da allora le cose non sembrano molto cambiate.
Bibliografia
Vittorio ALFIERI, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1981.
2 Comments
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Una lettura bellissima. Grazie per la cura nella sua ricerca e per il fluire di uno scritto che scalda l’anima di chi i cavalli li ama.
Cara Tina, grazie a te dell’apprezzamento. Ciao!