Un libro che mi ha cambiato la vita. Un tributo personale a Sylvia Loch
di Giovanni Battista Tomassini
Sembra che al giorno d’oggi si legga sempre meno. O meglio, sembra si leggano sempre meno libri. La crisi di questo potentissimo mezzo di comunicazione è ormai certificata da mille statistiche. Per la maggior parte delle persone pare siano ormai troppi i messaggi dai quali siamo continuamente bombardati per trovare il tempo di dedicarsi anche ai libri. Rispetto alla televisione e ai social media, i libri richiedono indubbiamente maggiore impegno e concentrazione e questo, in un mondo sempre più frenetico e superficiale, li rende meno attraenti di altri strumenti di comunicazione. Eppure, nonostante tutto, continuo a essere convinto che coloro che periodicamente predicono l’inesorabile scomparsa dei libri si sbaglino. Perché nei libri c’è una forza che solo i libri posseggono e che, pur nell’epoca di Facebook e Twitter, continua a essere insostituibile. I libri continuano a essere il veicolo ideale dell’insopprimibile esigenza dell’umanità di dar voce ai propri sentimenti e di trasmettere le proprie conoscenze, superando le barriere dello spazio e del tempo. È questo che continua a renderli capaci di commuoverci e affascinarci. E poco importa se oggi si tramutano in oggetti immateriali, che possiamo scaricare con un click sui nostri tablet. Il libro non è infatti semplicemente un oggetto, ma è innanzitutto un’intenzione: il vettore di un’energia creativa capace di trasformare la nostra esistenza.
Sono tanti i libri che hanno influenzato la mia vita e le mie opinioni, facendo di me quello che sono oggi. Solo di pochi però posso dire che abbiano davvero prodotto un cambiamento profondo. Ed è di uno di questi in particolare che voglio raccontarvi.
Circa venticinque anni fa ero in vacanza a Londra. Come faccio sempre (almeno nei posti dove ancora le trovo), oltre a visitare musei e monumenti, visitai anche diverse librerie nella zona di Charing Cross Road, famosa per i suoi negozi di libri usati e d’antiquariato. All’epoca già montavo a cavallo da più di una decina d’anni e avevo già potuto constatare la difficoltà di trovare libri sull’equitazione in italiano. Per questo, la mia curiosità era particolarmente attratta dagli scaffali riservati alle pubblicazioni riguardanti i cavalli e l’arte equestre. Ricordo che mentre spulciavo tra i volumi in una grande libreria su più piani, il mio sguardo venne attratto dalla costa di un libro rilegato di grande formato. La copertina era superba. Su uno sfondo rosso spiccava un magnifico quadro del celebre pittore inglese di soggetti equestri John Wotton (1682-1764). Ritraeva Ferdinando Alberto secondo, duca di Brunswick-Lüneburg in abito settecentesco, montato su uno splendido stallone grigio. Finalmente trovavo sintetizzate in quell’immagine l’eleganza, la forza e la dignità che, confusamente, intuivo come l’essenza più attraente dell’equitazione. Quel ritratto m’additava un ideale di rigore, di grazia e leggerezza, ma allo stesso tempo di forza e agilità, che non avevo quasi mai riscontrato nei cavalieri contemporanei e che – ora lo capivo – apparteneva infatti a un’altra epoca e rappresentava un altro modo di intendere l’equitazione. Quella rivelazione s’accompagnava a una nuova consapevolezza: era quello il modo di concepire e praticare l’arte equestre che volevo diventasse anche il mio.
Cominciai a divorare il libro già sulla metropolitana che mi riportava in albergo. Le splendide immagini che lo arricchivano e il racconto di una tradizione equestre che affondava le sue radici nell’antichità classica mi affascinavano. E poco importa se non tutto di quel racconto mi fosse chiaro. C’erano nomi e termini tecnici che, lo confesso, all’epoca non avevo ancora mai sentito e non comprendevo. Ma capivo che in quelle pagine veniva evocata un’antica saggezza, sedimentatasi in millenni di convivenza tra l’uomo e il cavallo. La stessa saggezza e competenza che aveva reso possibile quel miracolo di raffinatezza che mi aveva colpito nel ritratto sulla copertina del libro e che ritrovavo nelle tante illustrazioni di quella bella edizione. Due cose però mi erano chiare. La prima è che la cultura del mio paese aveva avuto in passato un ruolo di primo piano nell’evoluzione di quella tradizione equestre. L’altra è che c’erano ancora luoghi dove quella tradizione veniva mantenuta viva da persone che se ne erano fatte interpreti e custodi. Due certezze che erano un ottimo punto di partenza.
In quegli anni, ero un giovane studente di letteratura, prossimo a discutere la propria tesi di laurea. Avevo già da un po’ cominciato a pubblicare saggi e recensioni in varie riviste specializzate e sognavo una carriera nel campo della ricerca. Era quindi logico che la lettura di quel libro mi suggerisse l’idea di approfondire lo studio dei primi trattati equestri di autori italiani. Ricordo ancora con quanta emozione sfogliai per la prima volta un’edizione cinquecentesca degli Ordini di cavalcare di Federico Grisone, presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Roma.
Quelle letture non facevano però viaggiare solo la mia mente. Già alcuni anni prima avevo visitato Jerez de la Frontera ed ero rimasto abbagliato dalla bellezza dei celebri cavalli cartujanos e dall’abilità dei jinetes della Real Escuela. Ora volevo ampliare il mio orizzonte. Tra le illustrazioni di quel libro che avevano più attratto la mia attenzione c’era una foto che ritraeva un gruppo di cavalieri portoghesi, montati su splendidi stalloni Alter-Real, che si esibivano nel giardino di un fantomatico Palazzo di Queluz. Avevo trovato un’altra destinazione per un nuovo pellegrinaggio equestre.
Dovete pensare che all’epoca il Web ancora non esisteva. Oggi se si vuole sapere qualcosa di un posto, o di una persona, basta cercarli su Google. Allora, qualcuno doveva parlartene. Oppure dovevi aver la fortuna di incappare in un articolo di giornale, o in qualche raro documentario televisivo. La mia prima maestra d’equitazione (che aveva lavorato in Spagna con la troupe cinematografica di Sergio Leone) m’aveva spesso raccontato gli splendori dell’equitazione andalusa. Solo una volta m’aveva accennato che in Portogallo c’erano cavalieri considerati addirittura più raffinati. Ed è proprio per questo che quella foto del carosello equestre nei giardini di Queluz aveva acceso la mia fantasia.
Un paio d’anni dopo, attraversai l’Europa in camper con un gruppo di amici alla volta del Portogallo. Loro erano in vacanza. Io avevo un obiettivo preciso: Queluz. Arrivammo di mattina presto. Fuori dello splendido palazzo c’erano parcheggiate poche macchine. Alla biglietteria però non trovai alcuna traccia della presenza di una scuola equestre. Chiesi all’addetto che si trovava all’ingresso. Mi guardò con aria interrogativa. Poi, quando finalmente capì cosa volevo, mi disse che lì non c’era nessuna Scuola. I cavalli erano a Lisbona, al Jockey Club. Nei giardini del Palazzo s’erano esibiti qualche volta ed era forse in una di quelle occasioni che era stata scattata la foto che avevo visto.
Insomma, un fallimento. Fu però durante quel viaggio che, in una piccola libreria vicino al celebre caffè A brasileira, nel centro di Lisbona, trovai l’edizione francese delle opere complete di Nuno Oliveira (Éditions Crépin Leblond) e il bel volume di Fernando Sommer D’Andrade sulla tauromachia equestre portoghese. Altre tracce da seguire. Altri spunti per far galoppare l’immaginazione.
Da allora sono passati molti anni e sono tornato tante volte in Portogallo. Non solo ho visto diverse volte esibirsi quegli straordinari cavalieri di Queluz, che formano la Escola Portuguesa de Arte Equestre, ma ho anche assistito ai loro allenamenti, ho visitato le scuderie, li ho conosciuti personalmente e con molti di loro è nata una sincera amicizia . Da alcuni ho avuto anche il piacere e l’onore di prendere lezioni d’equitazione. Nel frattempo, pur essendo diventato un giornalista parlamentare, ho continuato a studiare la trattatistica equestre e, alla fine, ho pubblicato i risultati delle mie ricerche in un libro sull’argomento.
Non credo che tutto questo sarebbe accaduto, se un pomeriggio di tanti anni fa, a Londra, non avessi acquistato il libro di Sylvia Loch, Dressage: the Art of Classical Riding. Quel libro ha letteralmente cambiato il corso della mia vita. Mi ha spinto a viaggiare, a studiare, a scrivere. Ha aperto una finestra su un mondo meraviglioso e mi ha mostrato un cammino, lungo il quale ho incontrato tante persone, sono nate grandi amicizie, ho letto libri, ho imparato tante cose, mi sono emozionato e divertito. E tutto questo me lo ha regalato una persona che non ho mai avuto il piacere e l’onore di incontrare personalmente, anche se le sono riconoscente come a una benefattrice.
Chiunque scrive lo fa innanzitutto ubbidendo a un bisogno personale di esprimere i propri sogni, dar forma alle proprie esperienze, in alcuni casi, esorcizzare le proprie ossessioni. Nel momento in cui questo impulso si traduce in atto e i sentimenti e le idee divengono discorso scritto, l’autore abbandona la propria opera agli altri, sperando che possano trarne qualche beneficio. È impossibile stabilire quali cortocircuiti inneschino la scintilla determinante, ma alcuni libri ci parlano in modo diverso. Toccano tasti ai quali siamo più sensibili e innescano così trasformazioni profonde.
Recentemente, mi sono iscritto al gruppo che Sylvia Loch ha fondato su Facebook e ho cominciato a postare periodicamente piccoli estratti dei miei articoli. In diverse occasioni i suoi commenti mi hanno testimoniato che apprezzava quanto avevo pubblicato. È stato però un caso fortuito e straordinario che m’ha fatto venire in mente di scrivere questo articolo: per far sapere a lei qual è stata l’influenza che il suo lavoro ha esercitato sulla mia vita e per raccontare a voi un esempio del potere insostituibile dei libri. All’inizio dell’estate ho visitato la splendida biblioteca equestre che è stata recentemente inaugurata nel Palazzo di Queluz (potete leggere l’articolo che scrissi per questo blog clickando sul link seguente: La nuova Biblioteca di Arte Equestre di Queluz, in Portogallo). Dopo aver scorso, con occhio rapito, gli scaffali sui quali vi sono conservati tanti libri antichi e preziosi dedicati all’arte equestre, il mio sguardo venne attratto dall’armadio delle pubblicazioni recenti. È stato allora che, con un tuffo al cuore, ho scoperto l’edizione americana del mio libro proprio accanto a quel volume di Sylvia Loch, dal quale tutto aveva preso le mosse tanti anni fa. Il cerchio s’era chiuso. Grazie Sylvia!
Link utili su Sylvia Loch
- Il sito personale di Sylvia: sylvialoch.com
- Sylvia è anche la fondatrice del Classical Riding Club, per promuovere l’etica del rispetto del cavallo in tutte le discipline equestri, in accordo con i principi dell’equitazione classica: classicalriding.co.uk
- Il gruppo Facebook Sylvia Loch & Classical Riding Club
- Libri di Sylvia Loch
1 Comment
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Fantastico una lettura che apre orizzonti di luce e di rigore intellettuale