Le tante anime di un genio
di Giovanni Battista Tomassini
Bartabas, il grande artista equestre francese, fondatore di Zingaro, ripercorre la sua vita e la sua carriera in un bellissimo libro, da poco pubblicato in Francia, in cui racconta le storie dei tanti cavalli che lo hanno accompagnato negli anni. Una sorta di autobiografia ideale e al contempo di tributo ai compagni di una vita, ricca di aneddoti e di riflessioni interessantissime sull’arte equestre
È molto probabile che, tra trentadue e trentaseimila anni fa, gli uomini che dipinsero le sagome di cavalli preistorici sulle pareti delle grotte di Chauvet, in Francia, provassero lo stesso misto di paura e attrazione che prova ancora oggi qualsiasi bambino quando s’avvicina, per la prima volta, a un cavallo. Prende le mosse da quest’emozione primordiale D’un cheval, l’autre, il libro che Bartabas, il grande artista equestre francese, ha dedicato ai cavalli della sua vita (ed. Gallimard, 2020).
“Il bambino di cinque anni che sono stato ha dovuto anche lui vincere la sua paura davanti a questo mostro di seicento chili, chiamato cavallo. Una paura che nasceva dalla stessa fascinazione che quell’animale esercitava su di me e che, per delle ragioni che ignoro, mi dissi che dovevo superare. Andare incontro a degli esseri differenti come se fossero miei simili è la prima lezione che quell’animale mi ha insegnato.” (p. 12)
Quando, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, il genio di Bartabas fece la sua comparsa al centro della pista dello sgangherato tendone del Cirqe Aligre fu come l’esplosione del primo razzo, che annuncia uno spettacolo pirotecnico. Da quell’esperienza nacque, nel 1984, un nuovo e più nutrito gruppo di artisti che, sulla base di un sodalizio esistenziale oltre che artistico, vivevano insieme in una sorta di villaggio gitano di un’altra epoca. La compagnia prese il nome di Zingaro e il loro primo spettacolo, Cabaret équestre, rivelò al mondo qualcosa che era del tutto nuovo e inaspettato. Bartabas lo battezzò “teatro equestre”: una forma espressiva che combinava, in una mescolanza originale, ironica e travolgente, la tradizione romantica, ottocentesca, del circo, l’equitazione accademica, l’eleganza temeraria del rejoneo e il teatro d’avanguardia. Uno spettacolo ricco di suggestioni gitane, con la colta spavalderia e il ritmo indiavolato di un cabaret futurista. Ma il fatto più straordinario per quell’epoca, ormai inesorabilmente meccanizzata, è che di quello spettacolo i veri e assoluti protagonisti erano i cavalli, ai quali veniva tributato una sorta di affascinante culto pagano. Il successo fu travolgente e da allora a oggi Bartabas ha creato spettacoli eccezionali: dal successivo Opera équestre, a Chimeres, Eclipse, sino ad arrivare ai più recenti, Calacas ed Ex-Anima. Tutti spettacoli che, ogni volta, hanno spostato la dimensione del teatro equestre in un nuovo territorio, mettendo in dialogo l’alta equitazione con il teatro, la danza, la musica e la letteratura. Il successo di Zingaro è stato inoltre fecondo e ha dato un impulso decisivo per la rinascita dello spettacolo equestre nel mondo. A Bartabas, a diverso titolo, si sono infatti ispirate e si ispirano tante compagnie, che oggi esplorano le potenzialità espressive del cavallo in campo artistico.

la prima compagnia di Bartabas
A questo punto della sua vita, Bartabas ha deciso di volgere indietro lo sguardo e di ricordare i tanti cavalli che lo hanno accompagnato nella sua carriera artistica e nella sua vicenda umana. Li racconta in questo libro con un linguaggio asciutto, ma al contempo capace di momenti di forte suggestione, che si intuisce frutto di un lungo lavoro di ascolto della propria memoria e di concentrazione. Il più emblematico, il vero alter ego di Bartabas, tra i 143 cavalli di cui, alla fine del libro, l’autore elenca i nomi, è stato ovviamente Zingaro: lo splendido stallone frisone, con il quale in Cabaret équestre teneva un duetto esilarante. Un numero in libertà in cui ironia, amore, forza ed eleganza si mescolavano in una vera e propria magia. Solo una volta, a Volterra, in Italia, Bartabas ha osato cavalcarlo, addentrandosi con lui in un bosco, all’insaputa del resto della compagnia.
“Mai nessuno seppe di questa fuga. Mai più l’ho inforcato come un volgare cavallo. Doveva restare Zingaro, la bestia mitologica, lo stallone libero e integro, che teneva testa a Bartabas il Furioso.” (p. 94)
La perdita di questo animale speciale, ucciso da una colica durante la tournée negli Stati Uniti dello spettacolo Chimeres, è un dolore dal quale manifestamente Bartabas non è mai guarito. Nel caravan in cui vive, conserva una treccia dei suoi crini e l’urna con le sue ceneri, in attesa che un giorno vengano unite alle sue.

(Photo by Robert Van der Hilst – Getty Images)
Fra i tanti cavalli della vita di Bartabas, che hanno incantato il pubblico di tutto il mondo per la loro eleganza e maestria, molti erano, in realtà, esemplari acquistati a poco prezzo, da commercianti dai modi spicci. Magari salvandoli dal mattatoio. Come Chaparro, il piccolo cavallo spagnolo sul quale in Cabaret équestre un acrobata eseguiva volteggi vertiginosi. Per quel cavallo che caracollava, con i campanelli ai pastorali, quegli esercizi
“avevano un’aria di samba. Aveva l’entusiasmo comunicativo di coloro che hanno sfiorato la morte e sono riconoscenti alla vita.” (p. 30)
Nello stesso spettacolo Bartabas montava Dolaci, un cruzado lusitano che “era stato alla buona scuola del rejoneo, dove l’equilibrio e l’impulso sono una necessità e non un pretesto per la retorica” (p. 36). A lui si riconosce debitore come a un maestro: “gli debbo la scoperta delle sensazioni giuste, quelle, indimenticabili, che mi sono servite da guida in tutta la mia vita equestre” (pp. 36-37). Quell’esemplare elegantissimo conservava però un ricordo traumatico del suo passato nelle arene. Un giorno, mentre Bartabas lo accudiva prima di uno spettacolo, il cavallo aveva infatti preso a tremare e sudare, non appena la radio aveva cominciato a trasmettere le prime note dell’overture della Carmen. Quelle stesse che vengono invariabilmente suonate durante il paseo che precede le corride, nel sud della Francia. Ciò nonostante, piroettando con lui attorno a una garrocha improvvisata, ogni sera Bartabas rinnovava un balletto fatto di controllo, equilibrio e impulso, che lo faceva sentire come Nureyev.
“Con te, ho capito che per addestrare un cavallo non basta comprendere la sua locomozione e risolvere le sue resistenze fisiche. Bisogna sondare anche la sua anima.” (p. 38)

Uno dei più celebri tra i cavalli di Bartabas è stato poi Quixote, stallone lusitano che portava sulla coscia il prestigioso marchio dell’allevamento Ortigão Costa. Bartabas lo comprò da un cavalheiro portoghese, dopo una corrida nell’anfiteatro di Arles. Il cavallo era stato scartato per l’arena. Nessuno quel giorno immaginava che sarebbe diventato una leggenda. In quel periodo Bartabas meditava sull’insegnamento dei grandi maestri dell’arte equestre: da La Guérinière a Steinbrecht, da Pluvinel a Decarpentry, sino a Diogo de Bragança e Oliveira. Era però soprattutto “Baucher, il saltimbanco”, con la sua “seconda maniera”, quello che parlava più direttamente alla sua sensibilità. Un’immagine in particolare l’ossessionava a quell’epoca: la celebre foto di James Fillis che esegue il galoppo all’indietro su Germinal, nel 1890. In equitazione, però, la riflessione deve poi tradursi in azione:
“Una volta ancorate queste esperienze nella testa, si tratta di farle passare nell’assetto, nelle gambe e nelle mani, bisogna educare il corpo e regolare i riflessi. È una ricerca austera che non si può condividere.” (p. 68)
Alla fine, grazie a Quixote sentirà di poter raccogliere la sfida e con lui
“eseguirà il più puro galoppo all’indietro e, perché non ci siano possibili contestazioni, lo farà su una piattaforma di legno. In modo che da qualsiasi parte lo si guardi si potrà comunque ascoltare la melodia dei quattro tempi di galoppo sospesa nell’aria.” (p. 69)

galop en arrière, 1890
Il racconto della prima volta in cui riesce nell’esecuzione di questo esercizio sublime e uno dei momenti più emozionanti del libro (almeno per chi, come chi scrive, pratica l’equitazione):
“Leggero sulla mano, la sua testa è fissa sul suo bilanciere e le sue orecchie sono puntate verso l’avvenire. Sento il suo morso suonare un’aria e nel punto esatto in cui richiedo l’arresto e la marcia indietro, rinforzo l’azione del mio bacino; continuando a mantenere il tempo, arretro il mio assetto e porto leggermente il busto in avanti, come l’ago di una bilancia. Inverto il movimento e chiudo le dita in cadenza. Richiamo della lingua. Quixote punta le orecchie e, senza alterare l’oscillazione del suo galoppo, esegue due piccole falcate all’indietro. […] Apro le dita, cedo le mani, lo copro di carezze, metto piede a terra, gli slaccio il sottopancia e gli tolgo la sella. Rientriamo in scuderia. Ancora tremante, gli parlo e mi congratulo. Mi guarda tranquillo deglutendo le carote che gli porgo. So che condivide la mia gioia, siamo uniti.” (p. 75)
Bartabas e Quixote in Cabaret équestre
Chi ha esperienza dei cavalli sa che una delle virtù di questi animali è di diventare uno specchio fedele in cui guardare se stessi, a condizione che ci si avvicini a loro con la sensibilità necessaria a trasformare quella che alcuni considerano una mera pratica sportiva in un’esperienza esistenziale profonda. È così che Bartabas si ritrova nell’anima di Vinaigre, uno lusitano grigio, dal profilo montonino, con il quale esegue esercizi impensabili, con le redini legate alla cintura, sia in Chimeres, sia in Eclypse. Lo definisce
“un guerriero che, sottomesso con la costrizione, aspira sempre alla rivolta. […] Sotto la sella è sapiente, ma disordinato. Dà tutto volendo riprenderlo. Si innervosisce subito e procede con un’energia quasi aggressiva. Le sue arie, eseguite come una dimostrazione di forza, nascondono in verità una sottomissione forzata; la maniera in cui è stato iniziato trova in questo il suo limite. Bisogna fargli disapprendere molto per ritrovare calma e serenità e, con il suo accordo, pazientemente riaccordarlo.” (p. 97)
Nell’indole apparentemente violenta di questo cavallo Bartabas, che ha fama d’uomo dal carattere spigoloso e difficile, riconosce la stessa aggressività di facciata che nasconde la sua timidezza.
“Con lui scopro attraverso la pratica che è il corpo che si accorda al movimento dell’anima. Mi appare allora come uno specchio, e lo capisco come un fratello, perché so bene che ci si può nutrire di violenza quando si manca di sicurezza. Non procedo forse anch’io a strappi sui camini della vita? Brutali e a volte violente, le mie bravate da Artaban, i miei umori da Bar-tabac sono i calci di un timido che non si risolve a prendere il suo posto tra i suoi congeneri.” (p. 98)

(Photo Boris Horvat, Getty Images)
Bartabas soffre d’insonnia e spesso trascorre buona parte della notte nelle scuderie. Si mette in ascolto, cercando di farsi dimenticare dai cavalli. Li osserva mentre mangiano e dormono.
“In nessun altro momento i cavalli sono più umani di quando dormono, perché sognano e, come noi, quando sognano escono da loro stessi. Sognano forse di essere uomini?” (p. 80).
Durante queste sue veglie, scopre che Chaparro passa, con la bocca, la paglia attraverso le sbarre al suo vicino di box. Questi è un giovane percheron, grigio pommellato, di nome Guignolet, messo sui trucioli perché dopo aver mangiato la sua razione di fieno divorava per intero la lettiera di paglia e questo gli provocava delle coliche. Di fronte a questo gesto di solidarietà, Bartabas non può far a meno di chiedersi:
“Come posso accedere a questa comprensione intima dell’altro, e capire questo dialogo senza parole, che sembra dire l’essenziale? Si possono collegare due esseri dotati di compassione e tuttavia appartenenti a specie differenti? Aprirei il vaso di Pandora, quello che nasconde l’abisso della creazione, la comunione naturale che collega all’universo noi esseri viventi: animali, vegetali e umani.” (p. 81-82)

con Andrés Marín,
in Golgota
Una vita trascorsa in questo dialogo muto, alla ricerca del mistero che regola la relazione tra esseri diversi, ma straordinariamente compatibili, come l’uomo e il cavallo, lo ha condotto sulla strada di un personalissimo misticismo.
“Ho visto talvolta, nello sguardo di un cavallo, la bellezza inumana del mondo prima del passaggio dell’uomo.” (p. 13)
Negli ultimi anni, ha preso a esibirsi in luoghi quasi segreti, al levar del sole, con Le Caravage, lo splendido stallone “dall’eleganza noncurante dell’inglese, la rotondità dell’iberico e l’intensità dell’arabo” (p. 209). Con lui, in assoluto silenzio, di fronte a un pubblico che s’è radunato alle prime luci, intrattiene un dialogo solitario che è al contempo preghiera personale e rito collettivo.
“Tutte queste ore passate a conoscersi e riconoscersi, a unirsi e riunirsi per sentire talvolta nello spazio di un istante il divino attraversarci la schiena. Una vita a cavallo è dunque questo, qualche secondo di felicità condivisa?” (p. 293)

Île d’Aix en Charente Maritime
Foto Xavier Léoty
Con Le Caravage ha costruito negli anni un’intimità speciale, che va ben oltre la nozione di addestramento, ma è qualcosa che assomiglia molto di più a una inesauribile ricerca esistenziale. Paragona l’addestramento all’alta scuola alla costruzione di un edificio complesso, che si può compiere solo se il cavaliere lavora parallelamente sulla sua cavalcatura e su se stesso: “non ci sarà mai una costruzione nobile se l’architetto è ignobile”.
“Addestrare un cavallo all’alta scuola è come costruire una cattedrale. Dalle fondazioni alla punta della guglia all’incrocio del transetto, c’è bisogno di molti anni di ascolto e di perseveranza. Come il mastro tagliatore che modella ogni pietra, le raggruppa in funzione delle restrizioni spaziali e le marca con un segno, io debbo conoscere ciascuno dei suoi muscoli, ogni tendine, ogni articolazione e le loro implicazioni negli ingranaggi della sua struttura in movimento. Mediante una ginnastica quotidiana, farò sparire le sue rigidità per tentare di rendere all’insieme la sua armonia.” (p. 210)

Ma la tecnica e la competenza sono solo la premessa di un lavoro più profondo, personale, direi poetico, che non si compie mai pienamente, ma ogni volta si rinnova.
“Addestrare un cavallo è un lavoro di tutti i giorni. Una ricerca dell’assoluto che rifiuta l’astratto e disegna la sua materia nella bellezza del gesto.
Ma per creare ciò che non esiste, bisogna vivere nell’insoddisfazione permanente. Bisogna sapere rimanere barbari.” (p. 213)
A testimoniare questa sua inappagabile ricerca sono le sue creazioni, le tante invenzioni sorprendenti che hanno affascinato e continuano a stupire e far gioire il pubblico di tutto il mondo. C’è però in questo libro una nota ancora più intima, a cui un artista come lui poteva dar voce solo interrogando i cavalli/compagni in cui, negli anni, si sono riflessi come negli specchi di un caleidoscopio, i tanti volti della sua anima.

Ed. Gallimard, 2020, € 20
2 Comments
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Immenso
Bartabas trascende l’uomo .Il suo sciamanesimo è quanto di più Sacro il nostro triste tempo possegga.