Senza cavalli non son neppur mezzo. La passione equestre di Vittorio Alfieri. Parte 1

Museo degli Uffizi – Firenze
di Giovanni Battista Tomassini
Vista la perversa fantasia di chi stila i programmi ministeriali, non so dire se oggi a scuola lo studino ancora. A esser sinceri, a me, al liceo, fecero di tutto per rendermelo antipatico. Me lo raccontarono come il poeta dalla volontà eroica, impettito nella posa del fiero oppositore di ogni tirannide, autore di indigeribili tragedie in versi. Fu, per fortuna, all’università che scoprii che Vittorio Alfieri, uno dei maggiori poeti italiani del Settecento, ebbe una vita molto più interessante e avventurosa di quella che immaginavo. Soprattutto, leggendo la sua bella autobiografia, Vita di Vittorio Alfieri da Asti, scritta da esso (pubblicata postuma nel 1806), scoprii la sua viscerale passione per i cavalli. È chiaro che questo contribuì in modo determinante a farmi cambiare opinione su di lui.
I tanti aneddoti di argomento equestre disseminati nel corso della sua esistenza sono molto interessanti e divertenti, non solo perché rivelano l’inclinazione per i cavalli d’un grande della nostra letteratura, ma soprattutto perché testimoniano l’importanza del cavallo nel costume e nella cultura dell’epoca.
Figlio del conte di Cortemilia, Vittorio nacque nel 1749 e perse entrambe i genitori quando era ancora giovanissimo. Nel 1763, alla morte dello zio che gli aveva fatto da tutore e che gliene aveva sempre negato il permesso, Alfieri riuscì finalmente a coronare il sogno di “andare alla Cavallerizza”, che aveva sempre desiderato “ardentissimamente”. Il priore dell’Accademia Reale di Torino, presso la quale il giovane conte stava compiendo i propri studi, conoscendo la sua “smaniosa brama” di imparare a cavalcare gli propose l’equitazione come premio, se avesse scelto di proseguire all’Università. Alfieri accettò senza indugio e si diede subito da fare per superare l’esame.
Divenni dunque, io non so come in meno di un mese maestro matricolato dell’Arti, e quindi inforcai per la prima volta la schiena di un cavallo: arte, nella quale divenni poi veramente maestro molti anni dopo. Mi trovavo allora essere di statura piuttosto piccolo e graciletto, e di poca forza nei ginocchi che sono il perno del cavalcare; con tutto ciò la volontà e la molta passione supplivano alla forza, e in breve ci feci dei progressi bastanti, massime nell’arte della mano, e dell’intelletto reggenti d’accordo, e nel conoscere e indovinare i moti e l’indole della cavalcatura. A questo piacevole e nobilissimo esercizio io fui debitore ben tosto della salute, della cresciuta, e d’una certa robustezza che andai acquistando a occhio vedente, ed entrai si può dire in una nuova esistenza. (ALFIERI, 1967, p. 50)

Pietro Longhi, Passeggiata a cavallo, 1755-60
Museo del Settecento, Ca’ Rezzonico – Venezia
Entrato finalmente in possesso dei suoi beni, il giovane conte si diede alla bella vita e in compagnia dei rampolli d’altre famiglie nobili passava il tempo facendo gran cavalcate su animali di poco pregio, presi in affitto. A seguito del matrimonio della sorella Giulia, nel 1764, Alfieri ottenne una più ampia facoltà di spendere il proprio denaro. Decise così d’acquistare il suo primo cavallo.
Era questo cavallo un bellissimo sardo, di mantello bianco, di fattezze distinte, massime la testa, l’incollatura ed il petto. Lo amai con furore, e non me lo rammento mai senza una vivissima emozione. La mai passione per esso andò al segno di guastarmi la quiete, togliermi la fame ed il sonno, ogni volta che egli aveva alcuno incomoduccio; il che succedeva molto spesso, perché egli era molto ardente e delicato ad un tempo; e quando poi l’avevo tra le gambe, il mio affetto non mi impediva di tormentarlo e malmenarlo anche tal volta quando non voleva fare a modo mio. (ALFIERI, 1967, p. 54)

e fu subito colpito dalla bellezza dei cavalli ingles.i
George STUBBS, William Anderson con due cavalli da sella, 1793
Royal Collection – Windsor
Nel 1768 Alfieri si recò per la prima volta in Inghilterra e di quel paese gli piacquero subito «le strade le osterie, i cavalli e le donne» (ALFIERI, 1967, p. 83). In quegli anni, in tutt’Europa andava diffondendosi un crescente interesse per le istituzioni, la cultura e la moda inglesi, sentite come un modello di modernità e progresso. Una vera e propria “anglomania”, che investì anche l’ambito equestre e che di lì a qualche decennio portò all’affermarsi del purosangue inglese come razza più apprezzata e al diffondersi di nuove tecniche equestri, come il trotto sollevato, detto appunto all’inglese.

Joshua Reynolds, Lord Ligonier, 1760
© Tate Modern Gallery – Londra
Dopo aver viaggiato in vari paesi europei, nel 1771 Alfieri tornò in Inghilterra e qui si innamorò perdutamente di Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier. Un amore appassionato e contrastato, per una donna bellissima, che il giovane conte italiano visse con trasporto romantico, dando sfogo al suo cuore in tumulto cimentandosi nelle più spericolate imprese equestri. Una mattina, trovandosi a cavallo in compagnia d’un amico, , a dispetto delle proteste e degli ammonimenti del suo accompagnatore, decise di saltare la staccionata che divideva un prato dalla strada. Al primo tentativo, però, il cavallo urtò la barriera e cadde a terra insieme al cavaliere, rimbalzando poi in piedi. Lì per lì al giovane scavezzacollo sembrò di non essersi fatto nulla. Saltò di nuovo in sella e, ignorando le urla del suo compagno, riportò il cavallo al galoppo sull’ostacolo, questa volta superandolo. Non godette però a lungo di quel trionfo. A poco a poco cominciò ad avvertire un dolore sempre più forte alla spalla sinistra. La via del ritorno gli parve interminabile. A casa, il chirurgo penò e lo fece penare a lungo per risistemargli la clavicola spezzata. L’amore per la lady finì con un duello e un pubblico scandalo. Il giovane appassionato patì il disinganno di scoprire che prima di lui la bella intrigante aveva avuto come amante un palafreniere e di vedere la vicenda gettata in pasto alle gazzette.

si concluse con un pubblico scandalo
Thomas Gainsborough, Ritratto di Penelope Pitt, 1770.
© The Huntington Library, San Marino – California
Ripreso il viaggio, Alfieri passò in Olanda, Francia e quindi in Spagna, dove subito acquistò nuove cavalcature.
Alcuni giorni dopo essere arrivato a Barcellona, siccome i miei cavalli inglesi erano rimasti in Inghilterra, venduti tutti fuorché il bellissimo lasciato in custodia al marchese Caraccioli; e siccome io senza cavalli non son neppur mezzo, subito comprai due cavalli, di cui uno d’Andalusia della razza dei certosini di Xerez, stupendo animale, castagno d’oro; l’altro una hacha cordovese, più piccolo, ma eccellente, e spiritosissimo. Dacché era nato sempre avea desiderato cavalli di Spagna , che difficilmente si possono estrarre: onde non mi parea vero di averne due sì belli (ALFIERI, 1967, p.123).

un cordovese e un certosino di Jerez.
Ginés Andrés De Aguirre, Mercato di cavalli, secolo XVIII
© Museo del Prado – Madrid
E il suo amore per il bel cavallo certosino di Jerez era tale che, messosi in strada per Saragozza e Madrid:
Quasi tutta la strada soleva farla a piedi col mio bell’Andaluso accanto, che mi accompagnava come un fedelissimo cane, e ce la discorrevamo fra noi due; ed era il mio gran gusto d’ essere solo con lui in quei vasti deserti dell’Aragona (ALFIERI, 1967, p. 124).
Dopo quasi un anno, il viaggio volse finalmente al termine. Ritornato a Barcellona, Alfieri dovette separarsi dal suo splendido andaluso, con il quale aveva viaggiato per oltre trenta giorni consecutivi, provenendo da Cadice. Essendo “nemicissimo del vendere” i propri cavalli decise di regalarli entrambi: il cordovese alle figlie di un’ostessa “molto belline”, il certosino a un banchiere francese, che abitava a Barcellona, con il quale aveva fatto amicizia già all’epoca del suo primo soggiorno nella città catalana.
BIBLIOGRAFIA
Vittorio ALFIERI, Vita, a cura di G. Dossena, Torino, Einaudi, 1981.