L’equitazione nel Medioevo – Giordano Ruffo di Calabria

Miniatura di un cavaliere di Prato armato, attribuita a Pacino di Buonaguida, dai Regia Carmina di Convenevole di Prato, Italia Centrale (Toscana),
c. 1335-c. 1340

di Giovanni Battista Tomassini

Sebbene l’importanza del cavallo nella civiltà europea medievale sia noto e riconosciuto, vista la sua funzione centrale nella definizione dell’identità delle classi dominanti e il ruolo preminente che la cavalleria svolse in ambito militare sino almeno al XIV secolo, sappiamo purtroppo poco delle pratiche equestri dei secoli che separano l’epoca classica dal Rinascimento. La cosiddetta letteratura cavalleresca e le cronache ci tramandano la memoria, spesso ammantata dall’aura nebbiosa del mito, di innumerevoli imprese compiute a cavallo, ma poco o niente ci dicono di come i cavalieri medievali montassero i loro destrieri e di come questi venissero domati, addestrati, accuditi. Eppure, come nota lo storico francese Nicolas Thouroude (Thouroude, 2007), per lo meno per quanto concerne l’epoca tardo-medievale i documenti attestano l’esistenza di un’equi­tazione ludica che contemplava un addestramento raffinato del cavallo. Questo tipo di equitazione trovava la sua espressione nei tornei e poi nelle giostre che celebravano vari avvenimenti e che comportavano un rituale di corte e dei veri e propri spettacoli, oltre al combattimento, nei quali i cavalli avevano sempre un ruolo di primo piano. L’educazione equestre dei figli dei nobili era d’altronde considerata fondamentale. Raimondo Lullo nel suo Livre de l’ordre de chevalerie (1274-1276) raccomanda ai cavalieri di far apprendere ai figli a montare a cavallo sin dalla giovinezza e che durante l’apprendistato venga loro insegnato anche a prendersi cura dell’animale.

Battaglia di Fontenoy-en-Puisaye, da Grandes Chroniques de France
(Bibl. Sainte-Geneviève 782), c. 1274

In epoca medievale mancano testi che trattino specificamente della tecnica equestre. Il tema della cura e dell’allevamento del cavallo è spesso trattato in opere di carattere enciclopedico, come i Geopónica (opera generale di agronomia, compilata a Costantinopoli sotto l’imperatore Costantino VII Porfirogenito, nel X sec.), oppure come il Liber de animalibus di Alberto Magno (1206-1280), il De proprietatibus rerum di Bartolomeo di Glanville, detto l’Inglese (XIII sec.), oppure i Ruralium Commodorum libri XII (1304) di Pietro de’ Crescenzi (su questa materia si veda COCO – Gualdo, 2008).

Miniatura dal Roman de Tristan
(Musée Condé MS 648, fol. 199r), 1440-1460

In questo quadro ha un particolare rilievo il trattato di Giordano Ruffo di Calabria, miles in mare stalla (vale a dire ufficiale di second’ordine negli allevamenti imperiali) alla corte di Federico II. Nato intorno al 1200, a Gerace o a Monteleone di Calabria, scrisse un’opera pervenutaci attraverso la tradizione manoscritta con diversi titoli: Mariscalcia equorumLiber de curis equorumCyrurgia equorum (Ruffo, 1999 e 2002). Il testo fu sicuramente scritto in latino, anche se diverse sono le versioni in lingue romanze e non: toscano, siciliano, catalano, provenzale, francese e tedesco. Ne è nota anche una versione in ebraico, a testimonianza della sua grande diffusione. L’opera è suddivisa in sei parti. I primi quattro libri trattano l’allevamento, l’alimentazione, la riproduzione, l’igiene, la doma e l’addestramento, i morsi e la ferratura e la struttura fisica del cavallo. Gli ultimi due sono dedicati a descrivere le malattie, che vengono distinte in naturali (libro V) e accidentali (libro VI). A queste ultime è dedicata la parte più consistente del testo: in cinquantanove capitoli, vengono trattate le diverse patologie e le loro cure. I capitoli dedicati alla doma e all’addestramento sono piuttosto essenziali, ma valgono a dare un’idea delle pratiche equestri dell’epoca e contengono prescrizioni che si ritroveranno in opere più tarde (alcune delle quali sopravvivono tutt’oggi).

Enrico I in battaglia, dalle Grandes chroniques de France
(Bibl. Sainte-Geneviève 783, fol. 177v), 14th-15th century

Ruffo raccomanda di tenere il cavallo impastoiato nella scuderia, per evitare che possa ferirsi gli arti, e che gli venga approntata una lettiera di paglia alta sino alla ginocchia per la notte. Non mancano poi consigli dietetici, perché il cavallo si mantenga né troppo magro né troppo grasso. Si suggerisce inoltre di abbeverarlo con acqua torbida, perché considerata più “nutriente” («ideoque efficientur equorum corporibus nutribiliores refectiores ad plenum»). L’autore sconsiglia di cavalcare la sera perché il sopraggiungere delle ore più fresche della notte impedisce di far asciugare completamente il sudore prima di ricoverare l’animale nella scuderia. Allo stesso modo avverte di non cavalcarlo nei mesi più caldi dell’estate e in quelli più freddi dell’in­verno. La ferratura deve essere fatta con ferri leggeri, ma non deve intervenire quando il cavallo è troppo giovane per evitare di danneggiare l’unghia.

Torneo del Castello di Brut,
dal Romanzo della Tavola rotonda
(BNF Fr. 112(1), fol. 181v), c. 1470

All’inizio dell’addestramen­to, al cavallo deve essere applicato il morso più leggero possibile («frenum debile et levius»), avendo l’accortezza di spalmarlo prima di miele, o di qualche altro sciroppo dolce, per renderglielo più gradito. Una volta imbrigliato, il cavallo deve essere condotto alla mano da uno scudiero sino a che abbia imparato a seguirlo docilmente. Solo allora, senza sella né speroni, può essere montato al passo, abituandolo a voltare a destra e a sinistra. Dopo circa un mese lo si potrà quindi montare con la sella ed esercitarlo progressivamente a trottare su terreni arati, perché impari ad alzare bene i piedi. Viene inoltre raccomandato di allenarlo a voltare soprattutto a destra, perché il cavallo tende naturalmente a trovarsi più comodo sulla sinistra («quod equus est naturaliter pronior a sinistris»). Una volta addestrato al trotto, il cavallo potrà essere fatto galoppare, mantenendo un’andatura raccolta («in minore et breviore saltu») e per brevi tratti, per evitare che si affatichi. Si raccomanda inoltre, sia al trotto che al galoppo, di richiamare il cavallo con il morso perché pieghi progressivamente l’incol­latura, in modo che sia meglio agli ordini e veda dove posa i piedi. Per abituarlo ai rumori e alla folla, si suggerisce di cavalcarlo spesso in città, soprattutto in luoghi rumorosi (dove per esempio lavorano i fabbri) avendo cura di non punirlo se dovesse inizialmente dimostrarsi restio, per evitare che in seguito associ il rumore e il movimento alle percosse, ma al contrario incoraggiandolo dolcemente («blandendo ducatur»).

Frontespizio dell’edizione francese dell’Hippiatria sive Marescalia, di Lorenzo Rusio (Parigi, Christianum Wechelum, 1532). Quest’opera posteriore fu significativamente influenzata dal trattato di Giordano Ruffo

Non mancano però anche consigli che oggi fanno rabbrividire. Raggiunta la piena dentizione da adulto, secondo Ruffo al cavallo debbono essere cavati i quattro scaglioni (cioè i denti canini, che sono presenti solo nel maschio), considerati avversi all’imboccatura («a pluribus nuncupantur freni morsui continui adversantes»). Secondo l’autore, l’o­pe­­razione avrebbe inoltre il vantaggio di evitare al cavallo di ingrassare eccessivamente e di placarne la fierezza e il carattere troppo ardente. L’imboccatura da usare con il puledro è quella che in epoche successive verrà detta a cannone, composta da due barre trasversali e una per largo («ad duas barras extransverso et una per longum composita est»). Vengono poi descritte altre imboccature, più severe, con cannoni tortili e scanalati, o con una paletta che agisce sul palato, ma Ruffo sconsiglia l’uso di questi morsi troppo aspri che, proprio per la loro crudeltà, evita di trattare. Una volta trovata l’imboccatura giusta per la sensibilità dell’animale, bisogna poi evitare di cambiarla con altre di foggia diversa, per non rovinargli la bocca. Si deve inoltre abituare il cavallo a fermarsi e a rispettare il morso, prima di farlo lavorare ad andature più sostenute. Il galoppo dovrà essere condotto su distanze progressivamente più lunghe, ma senza abusarne, per evitare che il cavallo si stremi e diventi restio. Allo stesso modo, bisogna sollecitarlo frequentemente perché non impigrisca.

Organi interni del cavallo, da Carlo Ruini, Anatomia del cavallo infermità et suoi rimedii, in Bologna, presso gli heredi di Gio. Rossi, 1598

Il testo di Ruffo ebbe notevole diffusione ed esercitò una notevole influenza sui capitoli dedicati alla cura del cavallo di Pietro de’ Crescenzi e sui successivi trattati di mascalcia di Lorenzo Rusio (circa 1340) e del fiorentino Dino Dini (1352-1359), sino all’opera del precursore rinascimentale della medicina veterinaria Carlo Ruini, Anatomia del cavallo infermita et suoi rimedii (1598).

Bibliografia

AA.VV. 2011  Cavalli e cavalieri. Guerra, gioco, finzione, edited by F. Cardini and L. Mantelli, Ospedaletto-Pisa.

COCO, Alessandra – GUALDO, Riccardo 2008 Cortesia e cavalleria, la tradizione ippiatrica in volgare nelle corti italiane tra Trecento e Quattrocento, in I saperi nelle corti. Knowledge at the courts, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, (Micrologus XVI), pp. 125-152.

GUALDO, Riccardo 2005  Ippiatria in Enciclopedia Federiciana, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Vol.  II, pp. 81-86.

LULLO,Raimondo 1994  Libro dell’Ordine della Cavalleria. Italian edition with Catalan parallel text, edited by G. Allegra, Carmagnola, Arktos Edizioni.

RUFFO, Giordano 1999  Nelle scuderie di Federico II imperatore, ovvero L’arte di curare il cavallo, edited by M.A. Causati Vanni, Editrice Vela, Velletri. 2002

Libro della mascalcia, edited by P.Crupi, Soveria Mannelli, Rubettino Editore.

THOUROUDE, Nicolas 2007  Les prémices d’une equitation ludique à l’aube de l’epoque modern (XIVe -XVe siècle), in AA.VV., À cheval! Ècuyers, amazones & cavaliers du XIVe au XXIe siècle, edited by D. Roche and D. Reytier, Paris, Association pour l’académie équestre de Versailles, pp. 33- 47.

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