L’equitazione come modo per coltivare l’anima. Dom Duarte e i rimedi contro la paura
di Giovanni Battista Tomassini
C’è nella natura del cavallo una duplicità che, nel bene come nel male, influisce profondamente nel rapporto di questo animale con l’uomo. Si tratta di un’ambivalenza che già Claudio Corte, nella seconda metà del Cinquecento, aveva colto con esattezza. Il cavallo – scriveva Corte, nel suo Il cavallarizzo – partecipa «della natura domestica, e mansueta, e della fiera ancora» (CORTE, 1562, p. 11v). C’è infatti qualcosa di primordiale e di selvaggio nei potenti istinti che dominano le reazioni emotive del cavallo e che contrasta singolarmente con la sua indole docile e gregaria. Sconcertano i suoi timori apparentemente incomprensibili, opposti a prove inaudite di coraggio. Stupisce la veemenza del suo istinto sessuale che ne fa – sempre nella parole di Corte – «animale molto atto al coito, e all’amore inclinatissimo» (CORTE 1562, p. 18r). La sua mole e la sua forza incutono timore, sebbene basti una mano competente e sensibile a indirizzarne l’impulso generoso.
Per quanto si possa essere appassionati ed esperti, in ragione di questa ambivalenza, il cavallo ci attrae e allo stesso tempo ci spaventa. Ricordando l’emozione originaria che inconsciamente ha legittimato la sua scelta di una vita dedicata ai cavalli e allo spettacolo equestre, il grande cavaliere-artista francese Bartabas ha recentemente scritto:
Da parte mia, tutto è cominciato da una fascinazione. Vale a dire da un’ammirazione e allo stesso tempo da una paura. Dalla mia paura di bambino di fronte a questi “mostri” di 700 chili chiamati cavalli, una paura della quale, confusamente, per delle ragioni che ignoro, mi sono detto che dovevo superarla. (BARTABAS, 2012, p. 10)
La relazione uomo-cavallo viene modellata da questa complessità. Il conflitto tra fascino e paura s’annida nell’inconscio d’ogni cavaliere e d’ogni amazzone: ne alimenta la passione, addita loro sempre nuovi traguardi da superare, ma ne moltiplica anche le inibizioni ed è la causa dei più comuni errori tecnici e di gestione dell’animale. «La paura – scrive Michel Henriquet, dopo una vita dedicata alla pratica e all’insegnamento dell’arte di montare a cavallo – è l’handicap più frequente di chi pratica l’equitazione» (HENRIQUET, 2006, p. 46). Secondo il maestro francese, questo sentimento paralizzante attanaglia la netta maggioranza dei praticanti (sei o sette su dieci, secondo la speciale statistica dettatagli dall’esperienza). E non importa – aggiungiamo noi – che si tratti di neofiti o di cavalieri consumati. Certo, la consuetudine con gli animali attenua lo sgomento, ma molto spesso si intuisce l’influsso inconscio della paura anche negli atteggiamenti di molti professionisti. Alla luce di queste considerazioni non deve dunque sorprenderci che larga parte del Livro da Ensinança de Bem Cavalgar Toda Sela – uno dei primi trattati dedicati all’equitazione, scritto alla metà del Quattrocento dal re del Portogallo Edoardo I, noto come Dom Duarte – sia dedicato proprio alle gestione della paura che il cavallo incute al suo cavaliere. Una particolarità che fa di questo libro – nella bella definizione che ne dà lo studioso portoghese Carlos Henriques Pereira – «la prima pagina della storia della psicologia applicata agli sport equestri e verisimilmente della pedagogia dello sport in generale» (PEREIRA, 2009, p. 141).
Paura dell’animale, della sua forza e del suo temperamento, ma anche e soprattutto paura dei pericoli insiti dell’attività equestre. A cominciare dalla paura d’essere disarcionati. Se infatti, per Dom Duarte la prima e più importante qualità di un buon cavaliere è la sua capacità di restare solidamente in sella in qualsiasi circostanza – vale a dire il suo assetto – la seconda è proprio il non aver paura di cadere:
Non temere di cadere dall’animale o con lui, mantenendo un’adeguata fiducia in se stessi, nella cavalcatura e nel terreno sul quale si sta cavalcando, in modo da essere in grado di fare qualsiasi cosa sia necessario (DOM DUARTE, 2005, p.18).
Virtù fondamentale, poiché la prima qualità indicata da Dom Duarte è indissolubilmente legata alla seconda. Per quanto fisicamente forti, infatti, non si potrà mai essere davvero solidi in sella se si ha paura. Viceversa, chi si libera delle tensioni provocate dall’apprensione sarà più a suo agio e quindi in migliore equilibrio e nelle condizioni di disporre al meglio delle sue forze:
Un uomo che non ha paura di cavalcare ha la capacità di star solido in arcione, mantenendo una postura che riflette la sua forte volontà e allo stesso tempo esprime quanto lui si senta sicuro (DOM DUARTE; 2005, p. 55).
Duarte espone poi una vera e propria casistica dei mezzi mediante i quali vincere la paura. Da quelli più nobili, come la ragione, il sapere, la volontà e l’allenamento, a quelli meno elevati e più effimeri: come l’ignoranza, la collera, la presunzione, o il fatto di godere di una posizione particolare di vantaggio. È certo – aggiunge Dom Duarte – che ciascuno può migliorarsi e per questo deve impegnarsi se vuole eccellere nell’arte equestre:
sebbene si dica comunemente che noi non possiamo cambiare la nostra natura, io credo che gli uomini possano immensamente migliorare se stessi, con l’aiuto di Dio, correggendo i loro difetti e aumentando le loro virtù. E ciascuno deve impegnarsi per conoscere meglio se stesso, mantenendo e accrescendo le buone virtù ricevute, riducendo i propri fallimenti e correggendo i propri difetti. (DOM DUARTE; 2005, p. 45)
Due in particolare sono le facoltà che, secondo Dom Duarte, il cavaliere deve coltivare per vincere l’istintiva paura che il cavallo gli ispira: la conoscenza e la volontà. La prima è l’antidoto più efficace, ma non può essere raggiunta senza la seconda. Infatti, solo conoscendo profondamente l’animale e le tecniche per influenzarne e indirizzarne i comportamenti è possibile superare il timore delle sue reazioni e prevenire gli eventuali pericoli che da quelle reazioni possono scaturire.
Anche nell’equitazione, così come in tutte le cose che facciamo, se la paura ci rende incapaci di agire correttamente, dobbiamo prima di tutto imparare come agire meglio; e se apprendiamo come agire correttamente, acquisiamo quella sicurezza che fa svanire in gran parte o del tutto la paura (DOM DUARTE, 2005, p. 45).
L’universo equestre è però complicato e per certi aspetti misterioso. Complicato innanzitutto perché ciascun cavallo, pur condividendo alcune caratteristiche fondamentali con i suoi simili, si distingue per la sua peculiare sensibilità, attitudine, conformazione fisica. Misterioso, perché l’animale non comunica con noi se non attraverso il suo corpo e sta alla nostra esperienza e intuizione saperne interpretare i segni. Ma non solo. Nell’equitazione il nostro stesso corpo è strumento di comunicazione con il cavallo e il cavaliere deve quindi sottoporsi a un’attenta disciplina fisica per controllare i propri atteggiamenti e rendere così i propri segnali (cioè gli aiuti con i quali indirizza la cavalcatura) chiari e univoci. Raggiungere la vera competenza in campo equestre è dunque un processo lungo e sempre perfettibile, che si può affrontare solo se animati da un desiderio inesauribile di migliorarsi. Per Dom Duarte, la volontà è dunque virtù essenziale per superare la paura e raggiungere la vera competenza.
Nessuno deve dubitare che se qualcuno desidera diventare un buon uomo di cavalli, la sua volontà sia sufficiente a renderlo capace di superare la paura di cadere da cavallo – o con il cavallo – e che quindi egli finisca per essere un buon cavallerizzo (DOM DUARTE, 2005, p. 46).
Per Duarte, il cavaliere deve sempre dissimulare la propria insicurezza. Non solo perché così si mostrerà agli altri a suo agio anche nella difficoltà, ma perché a furia di dissimulare lo sprezzo del pericolo diverrà per lui un’abitudine e finirà per convincersi del proprio coraggio e sentirsi finalmente a proprio agio:
È possibile mostrare la nostra tranquillità mentre stiamo compiendo azioni specifiche, fingendo atteggiamenti che normalmente esprimono sicurezza. Questa capacità non è solo utile per ingannare gli altri; se lo facciamo spesso, queste attività possono diventare un’abitudine e alla fine convincere il nostro cuore; potremmo quindi finire davvero per sentirci al sicuro (DOM DUARTE, 2005, p. 59).
È questo uno degli aspetti più curiosi e interessanti della disciplina interiore che il cavaliere deve imporsi per vincere i propri timori. La dissimulazione diviene così uno strumento di auto persuasione. E a questo proposito, Duarte elenca alcuni “trucchi”, che possono servire al cavaliere smaliziato per nascondere il proprio imbarazzo in situazioni di pericolo. Per esempio, quando monta un cavallo riottoso, deve mostrare un’attitudine tranquilla e piacevole (ma sempre senza esagerare, per non incorrere nell’affettazione) e se quello si impenna, sgroppa o scalcia deve sistemarsi, con gesto lento e calmo, l’abito e il mantello, come farebbe un cavaliere affatto preoccupato di quanto sta accadendo. Allo stesso modo, se occorre correggere il cavallo con il morso o con uso più energico delle gambe e degli speroni, lo si deve fare continuando a parlare del più e del meno con le altre persone presenti, come se nulla turbasse la conversazione.
C’è però un aspetto che il discorso di Dom Duarte non tocca, ma che è a mio avviso particolarmente rilevante nella riflessione sulla paura che il cavallo incute all’uomo. Quel segreto spavento – che spesso mina inconsapevolmente anche i più sinceramente appassionati e molti professionisti del settore equestre – spinge la maggioranza di coloro che hanno a che fare con i cavalli a un uso eccessivo della forza. La violenza esercitata verso i cavalli è infatti sempre espressione del timore di non riuscire a controllarli con altro mezzo e dell’ignoranza di mezzi più efficaci e appropriati. E parlando di violenza non mi riferisco solo alle percosse e ad altre sevizie, ma anche a un uso eccessivo e inadeguato degli aiuti. Già Cesare Fiaschi, alla metà del Cinquecento, e molti altri autori rinascimentali avevano capito che il cavallo è un animale di straordinaria sensibilità con il quale si cerca, quasi sempre, di comunicare con modi e strumenti troppo forti, che si trasformano in una violenza inutile e controproducente nei confronti dell’animale. La paura si traduce immancabilmente in una scarsa disponibilità a osservare i comportamenti dell’animale e viene esorcizzata con atteggiamenti brutali, o quantomeno ben più aggressivi del necessario, che instaurano un circolo vizioso di azioni dell’uomo e reazioni dell’animale, fonte di inesauribili incomprensioni e di continui fallimenti.
Il sapere accumulatosi in millenni di convivenza tra l’uomo e il cavallo, tramandatoci dalla letteratura equestre, ci insegna che per eccellere il cavaliere deve vincere i propri timori e imparare a fidarsi di se stesso e della propria cavalcatura. L’essenza dell’equitazione più sofisticata sta in questa sicurezza interiore e in questa fiducia, che portano l’uomo a ricompensare la disponibilità dell’animale a collaborare lasciandolo quanto più possibile libero di esprimere le proprie potenzialità fisiche, senza inutili coercizioni. È la lezione della “discesa delle mani” di cui parla La Guérinière: il premio dato mediante uno degli aiuti «più sottili e più utili della Cavalleria» (LA GUÉRINIÈRE, 1733, II, 7, p.89). Appena il cavallo smette di resistere alla volontà del cavaliere, questi lo lascia “in libertà su parola”: cessa cioè gli aiuti con i quali lo controlla e gli concede di portarsi da solo. Allora l’animale riesce a esprimere il massimo della sua eleganza, della sua forza e agilità. È in fondo la stessa fiducia che porta il cavaliere ad avanzare le mani per lasciare “libertà d’incollatura” al cavallo sull’ostacolo nel “sistema naturale d’equitazione” di Federico Caprilli. Una rivoluzione che nel breve volgere di due decenni, tra Otto e Novecento, consentì di passare da ostacoli di poco più di un metro a barriere di oltre due. Anche in questo caso, il cavaliere deve vincere la propria paura, superare l’ossessione del controllo e affidarsi alla generosa vitalità dell’animale, per diventare tutt’uno con lui e acquisirne così la potenza e la grazia.
Non c’è dunque alta equitazione senza riflessione e studio, senza cioè un lavoro su se stessi che integri e perfezioni l’allenamento fisico e l’apprendimento tecnico. Per vincere le proprie paure e imparare a osservare il proprio partner, in modo da assecondarne le buone inclinazioni e correggerne i difetti, il cavaliere deve sottoporsi a un’interminabile iniziazione. «L’atto equestre – scrive Michel Henriquet – è uno sport per quanto riguarda la pratica metodica di esercizi che aumentano la forza, la destrezza e la bellezza dei gesti; ma tende anche verso un fine morale che unisce al perfezionamento del corpo l’educazione dello spirito» (HENRIQUET, 2006, p. 55). Il confronto quotidiano con un altro essere con il quale non possiamo comunicare attraverso il linguaggio, ma con il quale dobbiamo stabilire un’intesa basata sulla comprensione reciproca, diventa allora molto più che una pratica agonistica, o una attività ricreativa. Diviene un modo di coltivare la nostra anima e un’occasione per crescere come donne e uomini e non solo come amazzoni o cavalieri.
Bibliografia
BARTABAS, Manifeste per la vie d’artiste, Paris, Éditions Autrement, 2012.
CORTE, Claudio, Il Cavallarizzo, Venezia, Giordano Zilletti, 1562.
Dom DUARTE, The Royal Book of Jousting, Horsemanship and Knightly Combat. A transaltion into English of King’Dom Duarte’s 1438 Treatise Livro da Ensinança de Bem Cavalgar Toda Sela, by Antonio Franco Preto, ed. by S. Mulhberger, Higland Village, The Chivalry Bookshelf, 2005.
GIUBBILEI, Carlo, Federico Caprilli, vita e scritti, Roma, Casa Editrice Italiana, 1911.
HENRIQUET, Michel, La sagesse de l’ecuyer, Paris, L’oeil neuf Éditions, 2006.
LA GUÉRINIÈRE, François Robichon de, Ecole de Cavalerie,contenant la connoissance, l’instruction et la conservation du cheval, Paris, Jacques Collombat, 1733
PEREIRA, Carlos Henriques, Etude du premier traité d’équitation portugais. Livro da ensinança de bem cavalgar toda sela, Paris, L’Harmattan, 2001.
PEREIRA, Carlos Henriques, Le traité du roi D. Duarte: l’équitation portugaise a l’aube de la Reinassance, in AA. VV., Les Arts de l’équitation dans l’Europe de la Reinassance. VIIe colloque de l’Ecole nationale d’équitation au Chateau d’Oiron (4 et 5 octobre 2002), Arles, Actes Sud, 2009, pp. 140 -150.
PEREIRA, Carlos Henriques, Naissance et renaissance de l’equitation portugaise, Paris, l’Harmattan, 2010.