“A la brida” e “a la gineta”. Diverse tecniche equestri nel tardo Medioevo e nel Rinascimento
di Giovanni Battista Tomassini
Definendo, nel suo Libro del Cortegiano (1528), i tratti ideali del gentiluomo rinascimentale, Baldassarre Castiglione scriveva: «voglio che ‘l nostro cortegiano sia perfetto cavalier d’ogni sella» (Libro 1, 21). Che l’uomo di corte dovesse essere innanzitutto capace di montare a cavallo alla perfezione appare in effetti scontato. La pratica degli esercizi cavallereschi rappresentò, sin dal Medioevo e per molti secoli, uno dei tratti caratterizzanti dell’identità dell’aristocrazia. Tanto che il termine “cavaliere” finì per identificarsi con quello di “nobile”, come un sinonimo. Quello che invece colpisce è il riferimento a diversi tipi di sella. Un accenno che l’autore non si prese la briga di spiegare, considerandolo evidentemente chiaro per i lettori suoi contemporanei, ma che oggi appare assai meno immediato e che ci offre lo spunto per una rapida panoramica delle principali tecniche equestri diffuse all’epoca.
È evidente che se si fosse trattato solo di una mera questione di finimenti la specificazione di Castiglione sarebbe stata superflua. In realtà, come avremo modo di vedere più in dettaglio, l’autore del Libro del Cortegiano si riferisce a modi diversi di montare a cavallo che caratterizzavano l’equitazione rinascimentale e già quella tardo-medievale. Ce ne offre una chiara testimonianza quello che è, a tutt’oggi, possiamo considerare il primo trattato d’equitazione d’epoca post-antica: il Livro da ensinança de bem cavalgar toda sela. Si tratta dell’opera che Edoardo (Duarte) re del Portogallo (1391-1438), scrisse intorno al 1434 e che è pervenuta sino a noi in forma manoscritta (la prima pubblicazione, a Parigi, risale al 1842). Il titolo può essere tradotto in Libro dell’arte di cavalcare con qualsiasi tipo di sella. Ritroviamo quindi la specificazione che abbiamo già osservato in Castiglione, ma in questo caso l’autore ci offre molti più dettagli.
Nel suo libro Dom Duarte distingue addirittura cinque maniere diverse di montare a cavallo (III, 1): 1) quella con le sella di Brabante, 2) quella in cui non si prende appoggio sulle staffe; 3) quella in cui invece si sta saldi e in piedi sulle staffe; 4) quella in cui si monta con le staffe corte; 5) infine la monta a pelo, o con una bardella priva di staffe. La distinzione in base al tipo di sella e al tipo di staffatura fa chiaramente riferimento a diversi tipi di assetto del cavaliere e quindi a tecniche differenti. Dom Duarte sostiene che l’abitudine di calzare poco le staffe e di cavalcare senza quasi appoggiarvisi fosse diffusa in Inghilterra e in alcune regioni italiane, mentre la tradizione di montare senza staffe e senza l’uso degli speroni fosse tipica tipica dell’Irlanda. Secondo Carlos Henriques Pereira, che al libro di Dom Duarte ha dedicato uno studio approfondito, la prima e la terza maniera coinciderebbero sostanzialmente e corrisponderebbero all’equitazione cosiddetta “a la brida” di cui parlano successivamente diversi altri libri. In realtà, come avremo modo di vedere, questi due tipi di assetto erano profondamente diversi ed erano assimilati solo dal fatto che il cavaliere montava mantenendo le gambe distese. A questo modo di cavalcare si opponeva la cosiddetta equitazione “a la gineta”, caratterizzata invece dal fatto che il cavaliere montava con le staffe più corte e le gambe piegate. Sebbene la classificazione di Dom Duarte dimostri che in periodo tardo-medievale coesistessero una pluralità di tecniche equestri è soprattutto il contrasto tra equitazione a la brida e la gineta a caratterizzare l’equitazione dell’epoca e quella rinascimentale.
Con il termine equitazione “a la brida” si indicava la tecnica tipica della cavalleria pesante, caratterizzata dalla staffatura lunga. Come abbiamo visto Dom Duarte distingueva due modi differenti: la prima consisteva nel ben inforcarsi sulla sella, portando i piedi in avanti (III, 2); la seconda, invece, nel montare in piedi sulle staffe, senza mai sedersi sulla sella (III, 4). Per facilitare questa seconda modalità le staffe venivano allacciate l’una all’altra con una correggia, sotto il ventre del cavallo, perché non si divaricassero. L’uso di montare in piedi era secondo Dom Duarte più antico e prescriveva al cavaliere di tenere le gambe perfettamente dritte sotto di sé. Entrambe queste tecniche servivano a facilitare il cavaliere nel maneggiare la lancia. Tra Medioevo e Rinascimento la lunghezza, e conseguentemente il peso, di quest’arma era andato infatti progressivamente aumentando. Questo richiedeva al cavaliere, che era già impacciato nei movimenti da una pesante armatura, di stare saldo in sella per affrontare lo scontro con l’avversario. A questo scopo, venivano utilizzate particolari selle con arcioni molto alti, sia sul davanti che dietro, in modo da sostenere il cavaliere. Secondo Carlos Henriques Pereira e anche secondo altri storici, l’equitazione “a la brida” era tipica del Nord Europa. In realtà è ampiamente documentato che questo modo di montare a cavallo fosse largamente diffuso anche nei paesi meridionali, come l’Italia e lo stesso Portogallo. Anzi, secondo Baldassare Castiglione, i cavalieri italiani si distinguevano proprio per la loro abilità in questa tecnica e per la loro capacità di dominare cavalli difficili.
«degli Italiani è peculiar laude il cavalcare bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi, il correr lance e ’l giostrare» (Libro del Cortegiano, I, 21)
D’altra parte, questa era la tecnica equestre tipicamente usata nelle “giostre all’incontro”, vale a dire negli scontri a cavallo tra due cavalieri armati, che potevano affrontarsi “alla barriera” se tra i due contendenti era stata eretta una “lizza”, di legno o di tela, oppure in “campo aperto”. Si trattava di cimenti cavallereschi largamente diffusi in tutt’Europa sino al XVII secolo e questo spiega l’ampia diffusione dell’assetto “a la brida”.
Il fatto che nell’equitazione “a la gineta” le staffe venissero invece portate più corte consentiva al cavaliere un contatto più immediato e preciso degli “aiuti inferiori” con i fianchi del cavallo. Secondo Dom Duarte, questo stile prescriveva al cavaliere di sedere “nel mezzo della sella”, quindi senza avvalersi del sostegno degli arcioni e di portare i piedi saldamente appoggiati sulla staffe, con i talloni leggermente bassi (III, 5). Si trattava di una tecnica tipica della penisola iberica, di chiara derivazione nord africana. Lo stesso termine “gineta” o “ginnetta” deriva chiaramente dal termine spagnolo jinete che, a sua volta, discenderebbe dalla tribù berbera degli Zeneti, celebri per la loro cavalleria leggera. Sarebbero stati loro ad aver introdotto questo modo di cavalcare nella penisola iberica. Testimonia chiaramente questa origine anche il fatto che nell’equitazione “a la gineta” veniva utilizzato un tipo di morso del tutto identico a quelli tutt’ora usati in Nord Africa. Si tratta di un morso formato da due guardie, non troppo lunghe, collegate da un cannone, con al centro una paletta che si appoggia di piatto sulla lingua del cavallo e in cima alla quale è fissato un largo anello metallico, che viene passato sotto la mascella inferiore dell’animale e funge da barbozzale. La sella era anch’essa di chiara derivazione araba e ricordava la “silla vaquera” ancora oggi in uso in Spagna.
L’equitazione “a la gineta” aveva una connotazione marcatamente iberica, ma si diffuse rapidamente nei domini dell’impero spagnolo e in particolare nell’Italia meridionale. “Ginnetti” vennero detti i cavalli di origine spagnola, agili e ardenti, che venivano allevati soprattutto nelle regioni italiane meridionali. Lo testimoniano gli affreschi di Palazzo Pandone a Venafro, tra i quali spicca il ritratto del “ginecto” baio chiamato Stella, raffigurato all’età di quattro anni il 23 maggio 1523, e successivamente donato al nobile napoletano Annibale Caracciolo. Dom Duarte sottolinea invece come l’equitazione a la gineta fosse poco o nulla diffusa in Nord Europa e che inglesi e francesi avevano scarsa pratica di questo modo di montare a cavallo (III, 7).
L’equitazione “a la gineta” è inoltre la tecnica di base della corrida a cavallo. La staffattura corta consentiva infatti arresti e partenze rapidi e repentini cambi di direzione, essenziali nella lotta con il toro. È noto che questo tipo di combattimenti non si svolgevano solo nella penisola iberica, ma in epoca rinascimentale erano largamente diffusi anche in Italia. Benedetto Croce ricorda ad esempio quelle che si tennero a Siena e Firenze dove, in Piazza Santa Croce, nel 1584 si svolse una grandiosa caccia ai tori, in occasione della visita di Vincenzo Gonzaga, erede al trono di Mantova. Maria Bellonci, invece, racconta della passione dei Borgia per i tori e accenna al combattimento con il quale il duca Valentino, Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, celebrò il capodanno dell’anno 1502, nientemeno che sulla piazza San Pietro a Roma. Le caratteristiche dell’equitazione a la gineta venivano d’altronde esaltate anche in alcune tipi di cimenti cavallereschi, come il “gioco delle canne” e la “giostra dei caroselli”. Si tratta in entrambe i casi di giochi equestri di origine araba, importati dagli spagnoli in Italia, in cui due squadre di cavalieri si fronteggiavano, sfidandosi in una battaglia incruenta armati di canne e scudi alla moresca, oppure scagliandosi proiettili d’argilla.
Sia Dom Duarte sia, circa un secolo dopo di lui, Baldassarre Castiglione sono comunque convinti di una cosa: il perfetto cavaliere deve padroneggiare ciascuna di queste tecniche e sapersi adattare a ogni tipo di sella, poiché ciascuna è funzionale a specifiche esigenze. «Un uomo non sarà mai un buon cavaliere se non è in grado di scegliere il modo più appropriato di montare su ciascun tipo di sella» (Livro da Ensinança de Bem Cavalgar Toda Sela, III, 14).
Bibliografia
BELLONCI, Maria, Lucrezia Borgia, Milano, Mondadori 1939.
CASTIGLIONE, Baldassare, Il Cortigiano, a cura di A. Quondam, Milano, Mondadori, 2002.
CROCE, Benedetto, La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, 2a ed. riveduta, Bari, Laterza, 1922.
D’ANDRADE, Fernando Sommer, La tauromachie équestre au Portugal, Paris, Michel Chandeigne, 1991.
Dom DUARTE, The Royal Book of Horsemanship, Jousting and Knightly Combat, translatetd by A. F. and L. Preto, edited by Steven Muhlberger, Highland Viallge, The Chivalry Bookshelf, 2005.
PEREIRA, Carlos Henriques, Etude du premier traité d’équitation portugais. Livro da ensinança de bem cavalgar toda sela, Paris, L’Harmattan, 2001.
PEREIRA, Carlos Henriques, Naissance et renaissance de l’equitation portugaise, Paris, l’Harmattan, 2010.