L’allegrezza del cavallo . Giovanni de Gamboa, allievo di Pignatelli
di Giovanni Battista Tomassini
«L’allegrezza nel cavallo è la parte più bella di esso, e più pregiata». Credo che basti questa frase per intuire i motivi di grande interesse, ma anche l’intrinseca difficoltà di un libro stampato a Palermo nel 1606, con il titolo La raggione [sic] dell’arte di cavalcare (Palermo, per Gio. Antonio de Franceschi). Esprime infatti una sensibilità verso l’animale che molti (a torto) considerano solo “moderna”. Lo fa però con uno stile impervio, che rende la lettura del volume piuttosto faticosa al lettore di oggi. Ne vale però senz’altro la pena, anche perché l’autore, Giovanni de Gamboa, fu allievo di Giovan Battista Pignatelli, il celebre maestro napoletano, considerato una della figura più eminenti della tradizione equestre rinascimentale italiana. Si tratta certo di un’opera minore rispetto a quelle dei più noti allievi stranieri di Pignatelli: Salomon de La Broue, che per primo pubblicò un trattato equestre in lingua francese, e Antoine de Pluvinel, maestro d’equitazione del re di Francia, Luigi XIII, e autore dello splendido L’instruction du roi en l’exercice de monter à cheval (1625). Ciò nonostante il libro di Gamboa esprime (seppure in modo difficilmente intellegibile) una concezione raffinata dell’arte equestre, che ha significativi punti in comune con quella dei suoi più blasonati e noti colleghi stranieri e che affonda le sue radici proprio nel magistero di Pignatelli.
Come il suo maestro, anche Giovanni de Gamboa era di origini napoletane. Nel dedicare il suo libro al Senato siciliano, afferma di aver costituito una compagnia di cavalleria leggiera al servizio della città di Palermo e di averla mantenuta a proprio carico per un anno, sino a che non era arrivato dalla Spagna un ufficiale nominato a capitanarla. Quindi sostiene di essere stato capitano di un’altra compagnia di cavalli leggeri al servizio del Principe di Butera, generale vicario del Regno. Sempre dal suo libro, sappiamo che operò come cavallerizzo in varie città italiane, tra le quali Napoli, Milano, Torino e Genova, dove fu al servizio dei Doria e dei Pallavicini. A Reggio Emilia (allora Reggio di Lombardia), fu invece al servizio dell’allora governatore conte Fulvio Rangoni. Anche Gamboa, come altri autori napoletani coevi, afferma che Pignatelli si dedicò all’insegnamento dell’equitazione soprattutto quando ormai, a causa dell’età, non era più in grado di montare.
Ho già detto più volte che lo sapere quest’Arte senza saperla porre in pratica, sarebbe saperne una sola parte, con la quale potria giovare altri che servire se stesso il che rimane, dopo molta età, ne i vecchi Cavalieri di questa professione, come faceva la felice memoria del Signore Gio. Battista Pignatelli, mio Maestro e altri di sua età nella città di Napoli; li quali possono con la loro molta esperienza comunicare quest’Arte ad altri, nonostante che personalmente per difetto di età non possevano esercitarla (de Gamboa, 1606, p. 14).
Il libro è scritto in forma di dialogo tra l’autore e Don Antonino Morso, barone di Gibellina (fu deputato del Regno, capitano di giustizia di Palermo nel 1615-16 e divenne marchese di Gibellina nel 1619).
Gamboa distingue tre diversi aspetti dell’arte di cavalcare: l’addestramento, la tecnica equestre vera e propria e l’arte d’imbrigliare, cioè di saper scegliere la corretta imboccatura per ciascun cavallo. Il primo aspetto presuppone una grande esperienza da parte del cavaliere, che deve sapere adattare l’addestramento ai diversi temperamenti e alle diverse inclinazioni dei vari esemplari. In ogni caso, Gamboa insiste sulla necessità di un approccio dolce e privo di violenza. Per questo, sostiene che il puledro da domare deve essere innanzitutto ammansito in scuderia.
Quando sarà il tempo di domare il cavallo, è necessario prima di tutto renderlo piacevole e, mansueto il più che sarà possibile in la stalla, acciò per spavento e timore dell’uomo non si mostri disobbediente e, perverso, e, per quello fin dal principio, ne forzi usar la sferza (de Gamboa, 1606, p. 56).
Quindi lo si potrà cominciare a cavalcare con la bardella, vale a dire con una sella più leggera e imbottita di quelle che venivano impiegate con i cavalli addestrati. L’importante, sottolinea l’autore, è che si proceda gradatamente, in modo che il cavallo comprenda ciò che l’uomo gli chiede, senza infastidirlo, ma anzi incoraggiandolo e facendo attenzione a non stancarlo troppo, per preservare la sua buona disposizione verso il lavoro:
far che se li monti pian piano con molti carezzi, per fuggire l’occasione di batterlo, acciò che non si avvilischi o faccia poltronerie, causate dal non intendere la volontà dell’huomo e, dalla colera conceputa per l’offesa, ma con destrezza e, pacientia, gir procurando, e aspettando che resti sicuro e, saldo a lasciarsi cavalcare (de Gamboa, 1606, p. 56).
Una volta montati in sella Gamboa, come già Marco de Pavari (si veda l’articolo di questo stesso blog Marco de Pavari e il dominio della piacevolezza), suggerisce di distrarre il cavallo dandogli dell’erba da mangiare. Quindi, lo si dovrà indurre a muovere i primi passi mostrandogli l’erba da una certa distanza. Per rassicurare il puledro, gli si potrà inoltre affiancare un cavallo esperto oppure, ancora meglio, lo si farà condurre a mano da chi lo accudisce quotidianamente. Gamboa insiste sul fatto che si debba evitare di affaticare il cavallo giovane e ancora non allenato, sia per non nuocere alla sua salute, sia per non avvilirlo. Aggiunge poi che, all’inizio è preferibile far trottare il cavallo giovane su percorsi rettilinei, evitando i cerchi, che sono per lui molto più faticosi. D’altra parte, spiega, spesso i puledri messi troppo precocemente sui cerchi tendono ad assumere atteggiamenti sbagliati (collo eccessivamente piegato all’interno, groppa in fuori), che è poi difficile e molto lungo correggere. In ogni caso:
si havrà da procurare tutte l’attioni che si vorranno da esso senza battiture, ma con destrezza, e arte (de Gamboa, 1606, p. 58).
Per arte Gamboa intende innanzitutto la conoscenza teorica dell’equitazione. Secondo lui, infatti, la teoria fornisce nozioni generali che consentono al cavaliere di capire le cause dei difetti di ciascun esemplare e quindi di potervi applicare gli opportuni rimedi pratici. Per Gamboa, la comprensione teorica dei principi dell’arte equestre favorisce inoltre l’apprendimento da parte di chi vuole imparare a cavalcare. Ed è proprio perché ignorano i fondamenti teorici dell’equitazione che, secondo Gamboa, molti cavalieri procedono a caso, quasi sempre abusando di mezzi violenti, senza ottenere altro risultato che demoralizzare e stremare i poveri animali.
Me ricordo d’haver veduto dar simili letioni e faticare e, bastonare i poveri cavalli, senza poter intendere ciò che si volesse da essi il loro cavallerizzo. E come erano molto trangosciati e stanchi e avviliti, dismontarli e rimandarli a casa così stanchi e accorati, che mi movevano a molta compassione (de Gamboa, 1606, p. 10).
Ma un cavallo avvilito e stremato, perché sottomesso con mezzi brutali, non potrà mai esprimere quella bellezza che è invece propria dell’animale sereno, che si muove all’unisono con la volontà del suo cavaliere:
un cavallo malinconico, non darà si bella mostra di sé come farà il poco d’un cavallo vivace e allegro, la onde si deve dall’accorto Cavaliero procurar con ogni studio e arte di farlo tale (de Gamboa, 1606, p. 10).
Ne conseguono regole di buon senso, che conservano tutt’oggi la loro piena validità. Per esempio, la corretta attitudine della testa e del collo deve essere insegnata al cavallo gradualmente. Qualora si pretenda di indurre il piego immediatamente e con la forza, si otterrà l’effetto opposto, suscitando le inevitabili resistenze e difese dell’animale. Allo stesso modo, Gamboa sostiene che il cavallo che tende a portare la testa bassa e a pesare alla mano deve essere montato con il solo cavezzone e fatto trottare in salita e in discesa, inducendolo a trovare il proprio equilibrio naturale. Si ingannano – ammonisce l’autore – coloro che credono invece di poter rimediare a questo difetto con la briglia. Qualsiasi cavallo – conclude Gamboa – può essere addestrato agli esercizi cavallereschi, che poi riuscirà a eseguire a seconda delle sue attitudini naturali. Sta quindi al cavaliere avere la competenza di saperne valutare le possibilità e di adeguarne l’addestramento e l’allenamento in modo da metterne in risalto le migliori qualità.
Poi che il tutto si può superare dall’arte, e habilità del Cavaliero e, quando nelli maneggi non havesse forza bastante in uno non potrà essere che non l’habbi per un altro più facile, ma il difetto nasce da noi che non gli sapemo applicare quelli esercitij che alla loro natura e disposizione sarebbono conformi, ma volemo che la natura, e essi si accomodi alle nostre pazzie e inconsiderate regole (de Gamboa, 1606, p. 74).
Per questo l’addestramento deve ispirarsi a due criteri fondamentali:
sopra tutto havere in mente di non darli soverchia fatiga, e l’altra, principiare sempre ad insegnarli le cose più facili, à ciò sia più lieve l’obedire, e intendere (de Gamboa, 1606, p. 79).
Nella prima fase, si deve innanzitutto puntare all’obbedienza, senza preoccuparsi della correttezza e dell’attitudine, ma contentandosi del manifestarsi della buona volontà dell’animale. Quindi si potrà provvedere ad “aggiustarlo” progressivamente, cioè ad abituarlo a una postura corretta. Il cavaliere deve sempre evitare di affaticarlo troppo, facendo attenzione che l’animale capisca cosa gli viene richiesto, poiché a nulla giova la forza
per farli oprare quello che la sua intelligenza non capisce (de Gamboa, 1606, p. 80).
Le resistenze e difese del cavallo, spiega Gamboa, possono nascere sia da troppo ardore, sia invece da eccessiva fatica, o debolezza, dell’animale. È fondamentale capire le ragioni che inducono il cavallo a ribellarsi, o a disubbidire, per impiegare gli opportuni rimedi. Che non debbono comunque essere violenti, ma debbono calmare il cavallo troppo ardente, correggere e addestrare quello che semplicemente non comprende la richiesta dell’uomo, oppure allenare l’animale debole. Proprio a questi scopi differenti servono i vari esercizi, o maneggi, che offrono al cavaliere esperto una gamma di strumenti da impiegare a seconda delle esigenze.
Da questa breve sintesi, appare l’originalità della concezione dell’addestramento proposta da Gamboa, che mostra esplicite affinità con la dottrina (anche se non con le tecniche) di Pluvinel. Anche il maestro francese insiste, infatti, sulla necessità di evitare ogni forma gratuita di violenza, poiché solo il cavallo che lavora volentieri e non per paura dell’uomo può esprimere tutta la sua bellezza:
(se è possibile farne a meno) non bisogna affatto battere [il cavallo] all’inizio, nel mezzo e alla fine [dell’addestramento], essendo ben più necessario addestrarlo mediante la dolcezza (se se ne ha modo) che attraverso il rigore, visto che il cavallo che maneggia per piacere, mostra ben maggiore grazia di quello che vi è costretto dalla forza (PLUVINEL, 1625, p. 24).
Un concetto che Pluvinel ribadisce con la stessa insistenza di Gamboa, tanto da arrivare a sostenere che se la violenza fosse l’unico modo per addestrare e montare i cavalli, abbandonerebbe l’equitazione, visto che la brutalità toglie ogni grazia al cavaliere e spoglia il cavallo di ogni virtù:
Se i cavalli non andassero per altri aiuti che i colpi di sperone, io confesso francamente che abbandonerei l’esercizio della cavalleria, non essendoci alcun piacere nel far maneggiare un cavallo mediante la sola forza: perché l’uomo non avrà mai buona grazie fintanto che sarà costretto a batterlo e un cavallo non sarà mai piacevole da guardare nel suo maneggio, se non prova piacere in tutte le azioni che compie (PLUVINEL, 1625, pp. 35-36).
Seppure il libro di Gamboa sia stato pubblicato ben diciannove anni prima di quello di Pluvinel, mi pare impossibile ipotizzare un’influenza diretta dell’uno sull’altro. Molto più ragionevole è invece supporre che la spiccata affinità delle rispettive concezioni dell’addestramento sia da ricondurre alla comune matrice del magistero di Pignatelli. E che quest’ultimo fosse incline ad un approccio il più possibile dolce è testimoniato dall’altro celebre allievo del maestro napoletano, Salomon de La Broue, che ricorda come Pignatelli si servisse quasi solo del morso più dolce in uso all’epoca, il cosiddetto cannone:
Diversi invidiosi o poco sapienti, hanno spesso biasimato quel grande e sufficiente personaggio il Signor Giovan Battista Pignatelli, poiché egli non si sarebbe molto dedicato alla diversità delle briglie e dei cavezzoni e quasi hanno preteso si potesse pensare che ne ignorasse gli effetti. Al contrario, ciò che mi ha fatto un tempo ammirare il suo sapere e che mi ha più spinto a cercarlo e a servirlo, è il pensiero che, poiché rendeva i cavalli così obbedienti e così giustamente maneggianti e mostrando arie così belle nella sua scuola senza tuttavia servirsi comunemente di altri morsi che di un cannone ordinario e di un cavezzone comune, le sue regole e la sua esperienza dovessero avere molto più effetto che il modo di fare di quelli che si applicano tanto all’artificio di un’infinità di briglie (LA BROUE, 1610, p. 18).
Seppure penalizzato da uno stile farraginoso e a tratti quasi incomprensibile, il libro di Gamboa si dimostra estremamente significativo. Non solo perché dimostra ancora una volta quanto inesatto sia il luogo comune secondo il quale l’equitazione di scuola italiana in epoca rinascimentale fosse tutta, indiscriminatamente, caratterizzata da una particolare brutalità. Ma soprattutto perché, al contrario, documenta gli elementi di chiara continuità tra la tradizione italiana e quella francese, laddove molti autori hanno visto invece una netta cesura tra le due scuole.
BIBLIOGRAFIA
LA BROUE, Salomon de, Le Cavalerice François, 3° édition, reveue et augmentée de beaucoup de leçons et figures par l’autheur, Paris, A. l’Angelier, 1610.
DE GAMBOA, Don Giovanni, Raggione dell’arte di cavalcare, nella quale si insegna quanto conviene di sapere ad un cavaliero a cavallo, Per Gio. Antonio de Franceschi, 1606.
PLUVINEL, Antoine de, L’instruction du Roy en l ’exercice de monter à cheval, desseignées & gravées par Crispian de Pas le jeune, Paris, M. Nivelle, 1625.