Di che cosa parliamo quando parliamo di equitazione classica?
di Giovanni Battista Tomassini
Per quanto l’espressione “equitazione classica” sia da tempo in uso e largamente diffusa, il suo significato continua a essere piuttosto vago e ambiguo. In alcuni casi, infatti, si intendono per classiche le pratiche equestri dei secoli scorsi, in opposizione a quelle più moderne. Per esempio, si considera classica l’equitazione rinascimentale e accademica, in opposizione al metodo naturale di Federico Caprilli. In altri casi, il concetto assume una connotazione ispirata a una valutazione di tipo qualitativo. Per esempio, alcuni considerano classica un’equitazione con un orientamento più etico verso il cavallo, contrapponendola all’esasperazione della performance, tipica dell’equitazione sportiva. Di solito, in questi casi si rimpiange la finezza e l’eleganza del passato e si condannano la monta aggressiva, le posture coercitive (come il rollkur) e le movenze innaturali, imposte al cavallo da un malinteso spirito di competizione. In realtà, entrambe queste interpretazioni sono parziali e contradditorie. Nel primo caso, infatti, si riuniscono nella generica categoria delle cose “classiche” tecniche e pratiche che si sono evolute nei secoli in forme diverse, contrapponendole a un’altra categoria altrettanto generica e astratta, all’interno della quale finiscono per ricevere la medesima etichetta di “moderni”, atteggiamenti e sensibilità spesso molto diversi tra loro. Nel secondo caso, l’ambiguità è ancora più profonda, poiché si idealizza un passato che non sempre è da rimpiangere (basti pensare all’elogio del bastone di Grisone) e si condanna il presente, in modo altrettanto sommario e indiscriminato (visto che, per fortuna, oggi come ieri, accanto ai mediocri esistono anche ottimi cavalieri!).
Per cercare di definire più precisamente cosa sia l’equitazione classica è senz’altro necessario partire dall’aggettivo. Principalmente riferito al mondo dell’antichità greca e latina, intesa come fondamento della civiltà, il termine “classico” ha assunto il significato estensivo di qualcosa di “perfetto, eccellente, tale da poter servire come modello” e che, in quanto tale, “forma quindi una tradizione, o è legato a quella che generalmente viene considerata la tradizione migliore”. Quello che mi sembra essenziale di questa definizione (tratta dal Vocabolario della lingua italiana Treccani) è il richiamo a un passato che ha un valore fondativo e che genera una tradizione di eccellenza. Se parliamo di equitazione classica, dunque, parliamo di un tipo di equitazione che si richiama a un passato in cui ha origine un modo di intendere l’equitazione come pratica raffinata e tendente a un ideale di perfezione. Per cercare di identificare i tratti salienti di questo ideale dobbiamo tornare quindi alle opere che testimoniano la tradizione dell’arte equestre e cercare di individuare quali siano le caratteristiche distintive di quella tradizione. Mentre da un punto di vista tecnico gli esercizi, descritti nella trattatistica a partire dal Cinquecento, cambiano con il passare dei secoli e dell’impiego del cavallo, sul piano “stilistico” è invece possibile identificare alcuni caratteri che restano invariati e che possiamo considerare distintivi.
In una delle opere fondamentali del Rinascimento, Il libro del cortegiano (1528), Baldassare Castiglione spiega che il moderno gentiluomo di corte deve essere un perfetto cavaliere, capace di superare tutti per l’abilità con la quale esegue i diversi esercizi cavallereschi. Soprattutto, però, deve essere capace di compiere i suoi esercizi con grazia e buon giudizio.
“Però voglio che ‘l nostro cortegiano sia perfetto cavalier d’ogni sella, ed oltre allo aver cognizion di cavalli e di ciò che al cavalcare s’appartiene, ponga ogni studio e diligenzia di passar in ogni cosa un poco più avanti che gli altri, di modo che sempre tra tutti sia per eccellente conosciuto. E come si legge d’Alcibiade che superò tutte le nazioni presso alle quali egli visse e ciascuna in quello che più era suo proprio, così questo nostro avanzi gli altri, e ciascuno in quello di che più fa professione. E perché degli Italiani è peculiar laude il cavalcare bene alla brida, il maneggiar con ragione massimamente cavalli asperi, il correr lance e ‘l giostrare, sia in questo de’ migliori Italiani; nel torneare, tener un passo, combattere una sbarra, sia bono tra i miglior Franzesi; nel giocare a canne, correr tori, lanzar aste e dardi, sia tra i Spagnoli eccellente. Ma sopra tutto accompagni ogni suo movimento con un certo bon giudicio e grazia, se vole meritar quell’universal favore che tanto s’apprezza.” (Libro 1, 21)
Se quello che Castiglione chiama “buon giudizio” possiamo identificarlo con la competenza dell’esperto, che non ha bisogno di strafare per dimostrarsi abile, più complesso appare definire cosa intenda per “grazia”. Per Castiglione, la grazia è la suprema virtù del cortigiano (e del cavaliere) e consiste la capacità di dissimulare le difficoltà e la fatica che costano le imprese più ardite, le opere più complesse, così come pure gli esercizi fisici più impegnativi.
“Ma avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l’hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si può, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l’arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi.” (Libro I, 26)
La grazia dunque è l’abilità di compiere con naturalezza gesti o imprese difficili, mentre l’affettazione è al contrario un atteggiamento eccessivo, artificioso, vale a dire: esageratamente vistoso e goffo. Ed è significativo che Castiglione – che fu esperto e allevatore di cavalli – usi proprio un esempio equestre per spiegare la “regola universalissima” alla quale il nobile deve conformarsi per divenire un moderno gentiluomo:
“Vedete come un cavalier sia di mala grazia, quando si sforza d’andare cosí stirato in su la sella e, come noi sogliam dire, alla veneziana, a comparazion d’un altro, che paia che non vi pensi e stia a cavallo cosí disciolto e sicuro come se fosse a piedi.” (Libro I, 27).
Secondo questo criterio, l’eccellenza viene raggiunta solo quando anche l’esercizio più difficile è realizzato dal cavaliere con assoluta disinvoltura, cioè dissimulando lo sforzo e gli aiuti con i quali indirizza la cavalcatura, che appare compiere le proprie evoluzioni nel modo più naturale, quasi da se stessa. Ed è proprio questa capacità di comunicare in modo ineffabile con i cavalli che Pasquale Caracciolo mette in evidenza, descrivendo l’abilità del suo contemporaneo Federico Grisone, gentiluomo napoletano, autore degli Ordini di cavalcare (1550), il primo trattato equestre mai dato alle stampe.
“Dalla prima volta pare che ogni cavallo gli ubbidisca a cenno, sì che i circostanti ne rimangono stupefatti.” (CARACCIOLO 1566, p. 141)
D’altronde, come spiega un altro autore rinascimentale, Cesare Fiaschi, la grazia del cavaliere, vale a dire la compostezza dei suoi gesti e l’esattezza della sua postura, non ha una funzione solamente estetica, ma serve a indirizzare correttamente la cavalcatura, favorendone l’equilibrio e agevolandone il movimento negli esercizi più complicati:
“tutti quelli cavalieri che verranno di vedetta debbano procurare d’accomodarsi secondo il tempo con la vita e le membra, così capo e braccia come gambe e piedi, facendo sempre ogni opera di farsi veder più aggratiati che potranno a cavallo, perché, oltre che faran il loro bel vedere, aiuteranno anco al cavallo che in quella sorte di maneggio che farà comparirà più aggarbato e migliore.” (FIASCHI, 1556, p. 127)
La grazia del cavaliere, insomma, non è solo mera apparenza, ma rappresenta il modo più efficace di garantire sempre la massima mobilità e agilità del cavallo nei diversi esercizi. Allo stesso tempo, però rappresenta anche un ideale di decoro e d’eleganza che, per esempio, prescrive al cavaliere di non usare la voce con un cavallo addestrato, sul quale egli deve invece completamente dissimulare gli aiuti con il quale lo guida:
“è male udire un cavaliere gridar a cavallo e brutto veder è poi anchora dimenarsi assai con le membra e con la vita, perché solo si ha egli a movere un pochetto con quella a certo tempo per aiutarlo, accioché da lui sia fatto il voler suo, mostrando ancho con ciò a riguardanti di non esser statua, anzi haver garbo e maniera di star a cavallo.” (FIASCHI, 1556, p. 111)
Anche Claudio Corte, autore nel 1562 di un trattato intitolato Il cavallarizzo, condivide l’idea che gli aiuti – sia di voce, che di altra natura – debbano essere completamente nascosti, tanto che il cavallo sembri ubbidire in virtù di un’arte occulta:
“Ma in vece di voce deveno supplire gl’altri aiuti più necessarij, e maestrevoli. Benché meglio sarebbe ancora, che senza alcun aiuto, alla presenza di tali il cavallo facesse, e andasse bene; e che il cavalliero in questo dimostrasse una vera arte coperta senza sforzar il cavallo à fare con aiuto alcuno.” (CORTE, 1562, p. 76r).
Questo ideale, che abbiamo visto condiviso dagli autori italiani del XVI secolo, lo ritroviamo anche nel secolo successivo presso cavalieri di altre nazioni, come il francese Antoine de Pluvinel, che si era formato in Italia, alla scuola di Giovan Battista Pignatelli. Nel suo trattato L’instruction du roy en l’exercice de monter à cheval (1625), spiega che, per prima cosa, il cavaliere deve essere un “bell’uomo di cavalli”, vale a dire che deve innanzitutto presentarsi bene e con una postura corretta. Questo rappresenta un prerequisito visto che:
“Per ben fare e raggiungere la perfezione della scienza, bisogna cominciare, continuare e finire dalla buona postura del Cavaliere.” (PLUVINEL, 1625, p. 9)
Tanto che è meglio vedere un uomo ben composto a cavallo, per quanto possa essere ignorante della scienza, che uno altro che sia molto competente, ma che cavalchi con mala grazia. La facilità con la quale il cavaliere compie i propri gesti deve essere manifestata persino nell’espressione gaia del viso, per testimoniare a chi assiste che lui non prova alcun imbarazzo nel fare ciò che fa. Meno azioni fa il cavaliere e maggiori sono la sua grazia e il piacere di chi lo guarda, spiega Pluvinel. Per dimostrarsi corretto, il cavaliere deve raggiungere la quasi completa dissimulazione degli aiuti, dando l’impressione a chi lo osserva che il suo cavallo sia così ben addestrato da muoversi di propria volontà, “quasi come un miracolo in natura” (PLUVINEL, 1625, pp. 95-96). Quest’attitudine ha per conseguenza un maggiore rispetto dell’animale, che viene cavalcato con aiuti discreti e impartiti a tempo.
“Se i cavalli non andassero per altri aiuti che per i colpi di sperone, io confesso francamente che abbandonerei l’esercizio della cavalleria, non essendoci alcun piacere nel far maneggiare un cavallo mediante la sola forza: perché l’uomo non avrà mai buona grazie fintanto che sarà costretto a batterlo e un cavallo non sarà mai piacevole da guardare nel suo maneggio, se non prende piacere in tutte le azioni che compie.” (PLUVINEL, pp. 35-36)
Gli esempi di come questo ideale della grazia del cavaliere caratterizzi la maggior parte dei trattati d’equitazione potrebbero moltiplicarsi. Ci limitiamo qui di seguito a elencare tre autori di epoche differenti. Il primo è François Robichon de la Guérinière, che nel suo Ècole de cavalerie (1733) scrive:
“La grazia è un così bell’ornamento per un Cavaliere e allo stesso tempo un così importante viatico alla scienza, che tutti quelli che vogliono diventare Uomini di cavalli, devono prima di ogni altra cosa, impiegare il tempo necessario per acquisire questa qualità. Intendo per grazia, un’aria di disinvoltura e di libertà […] e che i movimenti del Cavaliere siano così sottili, che servano piuttosto ad abbellire il suo assetto, che a sembrare aiutare il Cavallo.” (LA GUÉRINIÈRE, 1733, pp. 82-83)
Più di un secolo dopo di lui, il generale Alexis L’Hotte si dimostra ancora pienamente in linea con l’estetica rinascimentale:
“Niente nel cavaliere deve far avvertire lo sforzo, né mettere in evidenza i suoi comandi […]. Il cavaliere deve farsi, in qualche modo, dimenticare, diventando una sola cosa con il suo cavallo.” (L’HOTTE, 1906, p. 172)
Ritroviamo, infine, gli stessi concetti espressi nella prosa efficace di Nuno Oliveira, il maestro portoghese, che nel XX secolo si colloca in una linea di piena continuità con la tradizione che abbiamo qui sommariamente ricostruito.
“Senza grazia non c’è equitazione fine e senza finezza non si può pensare all’arte. La durezza, la forza, sono l’appannaggio dei mediocri, che non vogliono mai essere veri.” (OLIVEIRA, 1991, p. 309)
Alla luce di queste considerazioni, credo che si possa ragionevolmente concludere che per “equitazione classica” dobbiamo intendere un’equitazione ispirata a un ideale raffinato, che punta a una comunicazione intima tra il cavallo e il cavaliere, fatta di aiuti discreti e quasi invisibili, e che si fonda su un assetto composto ed elegante, che consente al cavaliere di essere sempre “con la sua cavalcatura”. Un ideale che bandisce quindi ogni violenza, ma si fonda sulla leggerezza e il rispetto dell’animale. Un ideale che richiede una superiore consapevolezza e che punta a un pieno accordo tra due esseri profondamente diversi, ma straordinariamente compatibili, come appunto l’uomo e il cavallo. Da un punto di vista tecnico, questo ideale trova la sua più compiuta realizzazione nella “discesa di mano” di cui parla La Guérinière. Quando il cavallo si trova nel piazzamento corretto per esprimere tutto il suo potenziale in termini di forza e di movimento, il cavaliere cessa gli aiuti e lo lascia “in libertà su parola”, facendolo maneggiare con aiuti impercettibili che ne regolano l’impulso con minime e semplici variazioni dell’assetto. Allora il cavallo, come scrivevano gli autori del passato, sembra “ubbidire a cenno” e compiere i più difficili esercizi “da se stesso”, realizzando a pieno quella fusione delle volontà del binomio, che trasforma l’uomo in centauro.
Appare quindi chiaro che questo ideale non è legato a una particolare disciplina sportiva, né all’uso di tecniche ed esercizi tipici dell’equitazione del passato, come per esempio i salti di scuola. Che sia dressage, salto degli ostacoli, monta western, o alta scuola, il discrimine è il rispetto dell’animale, la ricerca della piena intesa, la finezza degli aiuti, la capacità di interpretare il potenziale dell’animale e il coraggio di lasciarglielo esprimere nel modo più libero e gioioso. Ciò che sottende questo modo di interpretare l’equitazione è una dimensione estetica che punta all’assoluto e che proprio per questo assimila l’equitazione all’arte. Tutto ciò che è forzato, violento, scomposto, contraddice questo ideale, scade nella mediocrità e non può che meritare l’esecrazione di tutti coloro che amano la bellezza incarnata in un cavallo.
Le riflessioni presentate in questo articolo sono state, in parte, ispirate dal dialogo tenutosi la sera del 23 novembre 2019, presso la Scuderia del Principino, a Bregnano, in provincia di Como. In occasione di quest’incontro mi è stato consegnato un premio intitolato alla memoria di Jean Alazar, grande cavaliere, amico e maestro, ricordato dai presenti con affetto e commozione toccanti. Sono particolarmente grato a Michele Coloru e Simona Beltrame, organizzatori della serata, che hanno pensato di darmi questo loro segno di stima e di amicizia e di aver offerto a me e ai partecipanti, oltre che una cena squisita, anche un piacevole occasione di confronto sul tema della buona equitazione.
BIBLIOGRAFIA
CARACCIOLO, Pasquale, Gloria del cavallo, Venezia, Gabriel Giolito de’ Ferrari, (in 4°), 1566.
CORTE, Claudio, Il Cavallarizzo, Venezia, Giordano Zilletti, 1562.
FIASCHI, Cesare, Trattato dell’imbrigliare, atteggiare e ferrare cavalli, Bologna, Anselmo Giaccarelli, 1556.
GRISONE, Federico, Gli ordini del cavalcare, Napoli, stampato da Giovan Paolo Suganappo, 1550.
L’HOTTE, Alexis François Questions équestres, Paris, Librairie Plon, 1906.
LA GUÉRINIÈRE, François Robichon de, Ecole de Cavalerie, Paris, Jacques Col- lombat, 1733.
OLIVEIRA, Nuno, Principes classiques de l’art de dresser les chevaux, in L’art equestre, Paris, Editions Crepin-Leblond, 1991.
PLUVINEL, Antoine de, L’instruction du Roy en l’exercice de monter à cheval, Paris, M. Nivelle, 1625.