La Giostra del Saracino di Piazza Navona (seconda parte)
di Giovanni Battista Tomassini
Nella prima parte di questo articolo abbiamo visto quali fossero le regole della Giostra del Saracino nel XVII secolo. Scopriamo ora la complessa drammaturgia di questo genere di feste equestri.
A partire dal Rinascimento, giostre e tornei assunsero un carattere eminentemente teatrale. Il loro svolgimento seguiva cioè un canovaccio letterario, che prevedeva un prologo e un epilogo che costituivano la cornice spettacolare e narrativa all’interno della quale erano collocate le prove cavalleresche vere e proprie. Nei giorni che precedevano la gara, un cavaliere, il cosiddetto “Mantenitore”, presentava il proprio cartello di sfida. Di solito questo avveniva nel corso di uno spettacolo in cui venivano recitati sonetti ed eseguite musiche e danze e, generalmente, il Mantenitore si presentava impersonando un personaggio fiabesco, di origine esotica. Nel caso della giostra di Piazza Navona, questo ruolo venne attribuito al marchese Cornelio Bentivoglio, che era considerato un grande esperto di questioni cavalleresche ed era nipote del cardinale Guido, che fu cronista della giostra. Proprio il puntuale resoconto della giostra, redatto dallo stesso cardinale Bentivoglio e soprattutto i bellissimi disegni di Andrea Sacchi che ne arricchiscono l’edizione del 1635, ci offrono la possibilità di scoprire e “vedere” la complessa e interessantissima drammaturgia di questo genere di feste equestri di epoca barocca.
Il primo atto si tenne il sabato grasso del 1634 in casa di Orazio Magalotti, dove era radunata la nobiltà romana. Nel corso della serata, comparve un carro trainato da un’aquila, sul quale un cantante impersonava la Fama. Dopo che questi ebbe cantato dei versi, fece il proprio ingresso un araldo e lesse il cartello di sfida, che era stato redatto dal poeta Fulvio Testi, autore anche dei versi cantati dal musico del cardinale Barberini, Marc’Antonio Pasqualini. Il Mantenitore si presentava come un misterioso cavaliere egiziano, Tiamo di Menfi, e sfidava i suoi avversari a dimostrare falsa con le armi l’affermazione
che la segretezza in amore è un abuso superstizioso, il quale suppone o scarsezza di meriti alla Dama, o povertà di spirito nel Cavaliere. (BENTIVOGLIO, 1654, p. 201)
La presentazione del misterioso personaggio e la sfida da lui lanciata rappresentavano quindi la premessa favolosa della giostra e la collocavano all’interno di un ricco tessuto di rimandi simbolici, alla cultura nobiliare e cortese e all’immaginario cavalleresco.
Perché la giostra risultasse uno spettacolo grandioso, vennero designati a parteciparvi ben ventiquattro cavalieri, suddivisi in sei squadre differenti. Questi rappresentavano i cosiddetti “venturieri”, vale a dire coloro che raccoglievano la sfida del Mantenitore ed erano pronti a dimostrare con le armi in pugno che la sua affermazione era falsa. A raccogliere la sfida del Mantenitore fu in prima battuta la squadriglia del Cardinale Barberini. Anche in questo caso i partecipanti impersonavano personaggi di fantasia e di origine esotica. Nella finzione scenica si presentavano infatti come quattro re, prigionieri dei Romani: Aristobolo, Re della Palestina; Tigrane, Infante d’Armenia; Artaferne Principe della Bitinia e Ossatre, signore di Cappadocia. La loro replica venne resa pubblica in occasione di un’altra festa, tenutasi in casa Falconieri pochi giorni dopo la presentazione della sfida. Nel corso della serata, dopo aver assistito a un balletto, gli ospiti si spostarono in una sala dove le sedie erano state disposte come in un teatro. Fecero quindi la loro comparsa due attrici in vesti di Ninfe, che conducevano con sé alcuni pastori e un araldo. Questi lesse la risposta dei quattro cavalieri, che si dissero pronti a dimostrare
la necessità della segretezza in amore più adeguatamente colla lancia che colla penna. (BENTIVOGLIO, 1654, p.206)
Nei giorni successivi, a Piazza Navona venne allestito lo steccato per la giostra, circondato da un recinto di palchi. Occupava circa i due terzi della piazza, che sorge sui resti dello stadio di Diocleziano e ne conserva in parte la forma. I palchi e le gradinate per il pubblico erano collocate in alto, in modo che al di sotto potessero collocarsi cavalli e personale di servizio, senza disturbare gli spettatori. Proprio di fronte al Saracino venne allestito il Palco per le Dame, al quale si accedeva direttamente dal Palazzo Mellini (successivamente inglobato nel Palazzo Pamphilj, che tuttora si affaccia sulla piazza). Il palco, coperto e riccamente addobbato con stoffe pregiate, era destinato innanzitutto a Anna Colonna, moglie di Taddeo Barberini, fratello del cardinal Antonio, e a Costanza Barberini, madre dello stesso cardinale. Accanto a loro sedevano, in un ordine di precedenza rigorosamente stabilito in base al rango, la moglie dell’ambasciatore di Spagna e le altre dame della nobiltà romana. Sul lato opposto dello steccato, all’interno del campo di gara, era invece collocato il palco dei giudici. Tutta l’arena era circondata di gradinate per il pubblico. Il campo di gara aveva forma ottagonale. La carriera era costituita da un doppio steccato, diviso dalla lizza, ed era pavimentata di mattoni. Infine, sul campo, alla destra dell’ingresso meridionale del teatro, era stato rizzato il padiglione del mantenitore: una ricca tenda da campo, da dove lo sfidante osservava lo svolgersi della gara, circondato dal suo seguito.
La mattina del sabato 25 febbraio 1634 i palchi si riempirono di pubblico. Molti personaggi altolocati assistevano affacciati alle finestre dei palazzi, mentre la servitù e il popolo minuto si accalcava persino sui tetti. Quando le dame e i giudici presero posto nei rispettivi palchi, la festa ebbe inizio. Le squadre dei cavalieri, accompagnate dai rispettivi padrini e scortate da un folto seguito di paggi, staffieri e trombetti, fecero il loro ingresso in campo, seguendo un rigoroso ordine di successione. Il colpo d’occhio era magnifico. Si consideri che, tra cavalieri, paggi e staffieri, alla giostra presero parte trecentosessanta persone e centotrentotto cavalli.
Il primo a essere accolto dal Maestro di Campo fu il Mantenitore, vestito con un sontuoso abito di seta verde, ricamato in oro e decorato con numerose perle e pietre preziose. In testa portava un gigantesco copricapo di piume, al centro del quale era un sole e il motto “Non latet quod lucet” (non è nascosto ciò che riluce). Il cavallo aveva una bardatura altrettanto ricca ed esotica. Lo precedeva un corteo composto da quattro trombetti, sei cavalli condotti a mano, ventotto staffieri a piedi e quattro paggi che recavano ceste dalle quali distribuivano al pubblico copie a stampa del cartello di sfida e vari sonetti. Seguivano poi i Padrini, don Prospero Colonna e il conte di Castel Villano, infine un paggio che portava la lancia e lo scudo del Mantenitore.
Lo sfarzo dei vestiti e delle ricchissime bardature dei cavalli aveva un rilievo tutto particolare in questo genere di spettacoli. Lo dimostra il fatto che, almeno a partire dal Rinascimento, la dettagliatissima descrizione della qualità delle stoffe e la foggia degli abiti dei cavalieri e del loro seguito occupa pagine e pagine delle cronache di giostre e tornei e ne costituisce addirittura la parte più consistente. Queste sfilate rappresentavano infatti un’occasione di pubblica rappresentazione del potere dell’aristocrazia, che doveva abbagliare il popolo con abiti vistosi e sgargianti, realizzati con stoffe rare e preziose. D’altra parte, l’ostentazione della ricchezza da parte dei nobili non era rivolta solo al popolo, ma anche ai propri pari, in una competizione per la quale erano pronti a spendere cifre enormi, in alcuni casi sino a indebitarsi e a dissestare le proprie finanze. Non sempre però era oro quello che riluceva. In alcuni casi, le vistose bardature di paggi e staffieri erano realizzate, come veri e propri costumi teatrali, con materiali più poveri, come la cartapaesta e lo stucco.
La prima squadra di venturieri a fare il proprio ingresso in campo, dopo il Mantenitore, fu ovviamente quella del cardinale Barberini. Il corteo era aperto dal nano del cardinale che cavalcava un toro, anche lui di piccole dimensioni, coperto d’una vistosa gualdrappa. All’epoca quasi tutti i nobili tenevano nani al proprio servizio, come giullari, o semplicemente per compagnia. Lo accompagnava un analogo seguito di padrini, trombettieri, paggi, staffieri e cavalli di ricambio. Anche in questo caso, i cavalieri avevano abiti stravaganti e diademi di piume sulla testa e tenevano un dardo nella mano destra. Va notato che di questa squadriglia faceva parte anche Domenico Cinquini, che fu uno dei più noti cavallerizzi romani dell’epoca. Di lui, Francesco Liberati scrisse nella seconda edizione del suo libro La perfettione del cavallo (1669):
di tanto valore et esperienza nelle cose Cavalleresche, che senz’ombra alcuna d’ ingrandimento si può di lui affermare, che nel nostro secolo sia egli stato l’Apollo di questa nobilissima professione; poiché non se gli è presentato cavallo così feroce, et indomito che sotto di lui non habbia fatto ad un tratto acquisto d’una maravigliosa mansuetudine et ubidienza; né si è trovato professore così nell’arte provetto, che volontariamente non habbia ceduto et amirato insieme la leggiadria e il garbo con cui a cavallo si reggeva, havendolo io veduto tal volta cavalcare con tanta saldezza che se tra la staffa e il piede, o pure tra lo stivale, o la sella frapposta se li fosse qualsivoglia sottilissima cosa non si sarebbe punto veduto muovere. (LIBERATI, 1669, p. 78)
Dopo aver fatto il proprio ingresso e aver sfilato davanti al pubblico, i cavalieri della prima squadra affrontarono subito la prova del Saracino. Subito dopo fece ingresso la squadra successiva e così di seguito. Tutte le squadre erano composte da cavalieri che impersonavano personaggi favolosi. C’era quella dei cavalieri Romani, quella dei Provenzali, quella dei cosiddetti Pertinaci, quella intitolata alla Dea Iside, quella degli Sdegnati. Con modalità analoghe a quelle seguite dalle squadre precedenti, ciascuna “passeggiò il campo”, eseguì cioè una sfilata davanti ai palchi, mentre i paggi distribuivano sonetti e repliche alla sfida del Mantenitore. Quindi prendeva il posto di quella che l’aveva preceduta e i cavalieri si cimentavano nella corsa contro il fantoccio. In questo modo le squadre venivano mantenute in continuo movimento,
onde il Theatro poté con ogni commodità per tutti i versi vagheggiare gli habiti, e le livree di ciascuna Squadriglia. (BENTIVOGLIO, 1635, p. 115)
Quando tutti i cavalieri ebbero corso contro il Saracino, il Maestro di Campo fece di nuovo sfilare il Mantenitore e tutte le squadre. Infine, lo squillo delle trombe annunciò la corsa della “lancia della Dama”, una sorta di premio speciale, che consisteva in un gioiello tempestato di diamanti, collocato al centro di un mazzo di rose rosse e offerto da Anna Colonna. Furono dodici i cavalieri che, durante questa prova, colpirono il fantoccio in fronte e si ritrovarono quindi ex-aequo. I giudici decisero quindi di estrarre a sorte il vincitore. Terminate le prove, i cavalieri continuarono però a dar spettacolo, cimentandosi in varie prove di abilità. In particolare, il Mantenitore imbracciò una lancia per braccio e, guidando il cavallo con le redini tra i denti, caricò e colpì il fantoccio con entrambe. Quindi, fece legare tre lance assieme e con quelle caricò e colpì di nuovo il bersaglio, quasi staccandogli la testa. La sua superiorità sugli avversari nelle prove cavalleresche fu schiacciante, tanto che vinse ben sedici premi. Si trattava di gioielli che, in segno di galanteria, il cavaliere regalò alle dame più in vista.
Oltre ai premi assegnati per le prove cavalleresche, ogni giostra prevedeva anche un riconoscimento alla squadriglia che veniva giudicata più elegante e di miglior portamento. Si trattava del cosiddetto Premio del Masgalano (dallo spagnolo “mas galante”, più galante). Questo riconoscimento sopravvive tutt’oggi nel Palio di Siena, dove viene assegnato alla contrada la cui “comparsa” (cioè, la cui squadra) viene giudicata la più “elegante”, nel corso del corteo storico che precede la corsa. Nella giostra di Piazza Navona il premio, offerto dal cardinale Barberini, consisteva in una splendida spada d’argento e in un cappello di castoro, con guanti e altre guarnizioni. A giudicare erano le Dame, che decretarono un ex-aequo tra i cavalieri della prima squadriglia (quella dei quattro Re) e quella dei cavalieri Provenzali. Si decise quindi di eleggere un campione per ciascuna squadra, che avrebbe dovuto correre tre lance contro il Saracino tre volte, per stabilire il verdetto. La vittoria arrise dal conte Ambrogio di Carpegna, per la squadriglia dei Provenzali.
L’intero spettacolo durò oltre cinque ore. Quando ormai cominciava a imbrunire, s’udirono alcuni colpi di cannone e nello steccato fecero ingresso due carri: il primo a forma di nave, il secondo di barca. Il primo era riccamente decorato con gli emblemi dei Barberini e dei Colonna (all’epoca le principali famiglie nobiliari a Roma). La nave era armata di cannoni e fuochi artificiali e trasportava attori che impersonavano il dio Bacco, accompagnato dal Riso, da baccanti, satiri pastori e artiglieri che sparavano a salve con i cannoni. La barca aveva a bordo diversi musicisti, che tennero un concerto sotto il palco di Anna Colonna e della Marchesa di Castel Rodrigo, ambasciatrice di Spagna. Lo spettacolo della Nave di Bacco destò tale meraviglia che il popolo reclamò che venisse esposta al pubblico, perché anche chi non aveva assistito alla giostra potesse venire ad ammirarla. E così fu fatto, mentre le dame e i cavalieri trascorsero la serata al ricevimento offerto dal Cardinale Barberini, nel Palazzo Mellini, che si affacciava sulla piazza.
BIBLIOGRAFIA
ADEMOLLO, Alessandro, Il Carnevale del 1634 in Piazza Navona, in Il carnevale di Roma nei secoli XVII e XVIII : appunti storici con note e documenti, Roma, A. Sommaruga, 1883, pp. 23-58.
BENTIVOGLIO, Guido, Festa fatta in Roma alli 25. di febraio MDCXXXIV, in Roma, data in luce da Vitale Mascardi, 1635.
LIBERATI, Francesco, La Perfettione del cavallo, Roma, per Michele Hercole, 1639 (2° ed. Roma, 1669).