La Giostra del Saracino a Piazza Navona (prima parte)
di Giovanni Battista Tomassini
Con la disinvoltura tipica dei Papi di quei tempi, nel 1628 Urbano VIII ordinò cardinale suo nipote, che all’epoca aveva appena vent’anni. In poco tempo, Antonio Barberini guadagnò una posizione di rilievo nella Curia romana, dove anche suo fratello Francesco e suo zio Antonio seniore sedevano nel collegio cardinalizio. Per celebrare il proprio ruolo e il potere della sua famiglia, enormemente accresciutosi grazie alla protezione del Papa, all’inizio del 1634 Antonio decise di finanziare, con la favolosa somma di 60.000 scudi, una grande Giostra del Saracino in onore del principe Alessandro Carlo Wasa di Polonia, in quel periodo in visita a Roma. Nelle sue intenzioni quello doveva essere l’evento culminante del Carnevale di quell’anno e restare nella memoria anche dei posteri. Come teatro scelse Piazza Navona, dove già da alcuni secoli si tenevano giostre e altri cimenti cavallereschi in occasione del Carnevale. L’ideazione letteraria della giostra venne affidata prevalentemente al poeta Fulvio Testi, residente del Duca di Modena, e l’allestimento all’architetto e scenografo Francesco Guitti, ferrarese.
Di questa formidabile festa in armi ci sono rimaste diverse testimonianze. A cominciare da due bei quadri, conservati nel Museo di Roma di Palazzo Braschi: uno di Filippo Gagliardi e Andrea Sacchi, che offre una visione d’insieme della piazza e l’altro attribuito a Giovanni Ferri, che adotta invece un punto di vista più ravvicinato. Dell’evento resta poi una dettagliata relazione del cardinale Guido Bentivoglio, pubblicata nel 1635 ed arricchita da splendidi disegni dello stesso Andrea Sacchi.
La Giostra del Saracino è un particolare tipo di cimento cavalleresco che consiste nel caricare al galoppo e colpire con la lancia un fantoccio girevole, collocato in cima a un palo. Di solito il fantoccio ha il braccio destro armato da una mazza, o da una sferza, e imbraccia uno scudo col sinistro. Secondo alcuni, questo esercizio sarebbe ispirato a quello del palus, descritto nell’Epitoma rei militaris, di Vegezio (IV-V secolo d.C.), con cui i soldati romani venivano addestrati a colpire con la spada. La Giostra del Saracino era anche chiamata Quintana e prevedeva la variante in cui anziché colpire il fantoccio, il cavaliere doveva infilare la punta della lancia in un anello sospeso al braccio del manichino. Si dice “del Saracino” perché tipicamente il manichino girevole aveva le fattezze e l’abbigliamento di un Moro, cioè appunto di un “saraceno”, vale a dire di un musulmano, come i pirati che razziavano le coste italiane, provenendo dal Nord Africa.
Contrariamente a quanto si vede oggi in molte rievocazioni di questo tipo di Giostra (per esempio ad Arezzo, o ad Ascoli Piceno), originariamente il cavaliere non doveva colpire lo scudo imbracciato dal Saracino, ma la testa. Anzi, se colpiva lo scudo il cavaliere veniva penalizzato. Lo spiegano esplicitamente i “capitoli da osservarsi nella Festa”, vale a dire il regolamento della giostra tenutasi a Piazza Navona nel 1634.
Chi colpirà dalle Ciglia in su, e nel segno a tal effetto aggiustato rompendo guadagnerà tre botte. Dalle Ciglia alla Bocca, due, e dalla Bocca al Mento una con la distinzione del delineamento a tal effetto apparente. Non rompendo, s’intenderà sempre che non habbia colpito, né fatta botta. Rompendo dal Mento, e dalla Gola in giù non acquista botta alcuna. Cascando la groppella, senza rompere, e staccarsi legno da legno non si intende rotto, e toccando il colpo qualche delineamento s’intenda la botta immediata inferiore. […]
Chi colpirà nello scudo, ò altro luogo del corpo del Saracino rompendo, ò non rompendo perderà una botta dell’acquistato, o d’acquistarsi.
Chi perderà nella carriera Lancia, Cappello, Spada, Briglia, ò Staffa perderà la Carriera. (BENTIVOGLIO, 1635, p. 20)
Il punteggio veniva quindi assegnato come segue: tre punti (“botte”) al cavaliere che colpiva il fantoccio sulla fronte (“dalle Ciglia in su”), dove era collocato un apposito bersaglio (“nel segno a tal effetto aggiustato”). Due punti venivano assegnati se si colpiva il volto (“dalle Ciglia alla Bocca”), uno se si colpiva il mento (“dalla Bocca al Mento”). Queste aree erano delimitate da linee tracciate sulla testa del fantoccio (“la distinzione del delineamento a tal effetto apparente”). Per essere valido il colpo doveva produrre la rottura della punta della lancia, che a questo scopo era fatta di un legno più tenero di quello usato nelle lance da guerra. Nel caso in cui nell’urto si fosse staccata solo la punta della lancia (“groppella”), ma senza la rottura dell’asta di legno, il colpo veniva considerato nullo, mentre qualora la lancia avesse colpito una delle linee che dividevano il bersaglio, cioè la testa del Saracino, veniva assegnato il punteggio associato all’area inferiore, quindi quello più basso. Se invece il cavaliere colpiva lo scudo, oppure un altro punto del corpo del fantoccio, sia che si rompesse o meno la punta della lancia, veniva comunque penalizzato di un punto. Qualora infine, durante la carica avesse perso la lancia, la spada, il cappello, oppure gli fosse sfuggita una staffa o la briglia, perdeva la “carriera”, vale a dire non gli veniva assegnato alcun punto.
Troviamo conferma di queste regole nel trattato, di poco precedente, del francese Antoine de Pluvinel, L’instruction du Roi en l’exercice de monter à Cheval (1625), a riprova che non solo erano in uso da tempo, ma erano largamente diffuse anche al di fuori dell’Italia. Il trattato è scritto in forma di dialogo tra l’autore e il re di Francia, Luigi XIII, che fu suo allievo nelle discipline cavalleresche:
SIRE, a volte i cavalieri si stancano di fare sempre la stessa cosa e trovano troppo faticoso, e a volte doloroso, ripetere spesso l’esercizio di affrontarsi in lizza gli uni contro gli altri; si divertono invece nella corsa all’anello, della quale raramente si stancano. Non considerando però questo esercizio abbastanza Marziale, i più inventivi hanno trovato un esercizio intermedio, che consiste nel collocare una figura d’uomo nella stessa posizione e alla stessa altezza di un avversario che li affronti in lizza. Armati di tutto punto, rompono le loro lance contro questa sagoma, che chiamano Quintana, , affrontandola come farebbero con un uomo vero; in questo modo eseguono un esercizio che è a metà strada tra la furia di affrontarsi in lizza gli uni contro gli altri e la gentilezza della corsa all’anello: il punto in cui rompere [la lancia] è nella testa, i migliori colpi sono quelli al di sopra degli occhi nella fronte, i meno buoni sono quelli al di sotto. E se qualche cattivo uomo d’arme colpisce lo scudo che la Quintana porta sul braccio sinistro, questa si gira su un perno e rischia di colpire colui che si è servito così male della lancia, il quale perde così la carriera a causa della sua malagrazia. (PLUVINEL, 1625, pp. 138-139).
Le parole dell’autore sono rese esplicite da una delle splendide tavole di Crispine de Passe il giovane, che ornano il libro di Pluvinel e ne fanno uno dei più bei libri dedicati all’equitazione. Nella tavola 47 si vede il re nell’atto di colpire la Quintana (che ha le sembianze di un imperatore romano, armato di spada e scudo e con il capo cinto d’alloro). Il sovrano porta il colpo su un bersaglio posto al centro della fronte del manichino. Sullo sfondo, alcuni cortigiani montati a cavallo assistono compiaciuti assieme all’autore, mentre un paggio segue da presso il cavaliere, portando una nuova lancia.
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BIBLIOGRAFIA:
BENTIVOGLIO, Guido, Festa fatta in Roma alli 25. di febraio MDCXXXIV, in Roma, data in luce da Vitale Mascardi, 1635.
PLUVINEL, Antoine de, L’instruction du Roy en l ’exercice de monter à cheval, desseignées & gravées par Crispian de Pas le jeune, Paris, M. Nivelle, 1625.
LINK:
Museo di Roma – Palazzo Braschi: http://www.museodiroma.it/
Galleria Nazionale d’Arte Antica – Palazzo Barberini:
http://galleriabarberini.beniculturali.it/