Un’accademia equestre nella Sicilia rinascimentale: la Congregazione dei Cavalieri d’Armi
di Giovanni Battista Tomassini
All’alba di venerdì 18 maggio 1565, le sentinelle dei Cavalieri di Malta videro comparire sulla linea dell’orizzonte le vele della flotta turca agli ordini dell’ammiraglio Piyale Paşa. Quasi centosettanta tra galee, galeazze e galeotte, alle quali si sommavano otto grandi mahon da trasporto, più decine di barche più piccole, che portavano i rifornimenti e i cavalli. Il “Gran Turco” sferrava l’attacco alla roccaforte cristiana al centro del Mediterraneo con una delle più grandi armate che si fossero sino ad allora viste. La notizia dell’assedio gettò l’Europa nello sgomento e suscitò un vero e proprio moto di panico nella vicina Sicilia. L’assedio durò quasi quattro mesi ma, alla fine, la strenua resistenza dei cavalieri maltesi ebbe la meglio sulla potenza dell’esercito Ottomano, che venne ricacciato in mare, dopo aver subito pesantissime perdite.
La vittoria non riuscì però a dissipare in Sicilia il diffuso sentimento di un’incombente minaccia. Appariva urgente formare una milizia pronta a respingere eventuali assalti delle coste e a tenere alto l’onore dei siciliani, rivaleggiando in valore con i dominatori spagnoli. Fu dunque con questo scopo che poco dopo l’assedio di Maltya, il viceré di Sicilia, García Álvarez de Toledo y Osorio (1514-1577) fondò a Palermo un’accademia equestre, in cui i nobili potessero esercitarsi nell’equitazione e nelle discipline militari, ma anche studiare la matematica, la geografia e la nautica. L’accademia prese il nome di Congregazione dei Cavalieri d’Armi e assunse San Sebastiano come proprio santo protettore e come emblema il ponte dell’Ammiraglio, un ponte a dodici arcate, di epoca normanna, posto allora ai confini orientali della città di Palermo (oggi è visibile dal Corso dei Mille) e il cui nome (“dell’Ammiraglio”) evocava una delle massime cariche militari dell’ordinamento normanno. Come motto venne scelto invece Et suos hic habet Oratios (“E qui ha i suoi Orazi”), riferendosi a Orazio Coclite, l’eroe romano che (nel 508 a.C.) difese il ponte Sublicio, sbarrando da solo la strada verso Roma agli Etruschi, guidati da Porsenna. Il motto stava a significare che, come Roma, “anche Palermo aveva i suoi Cocliti, virtuosi e coraggiosi uomini in armi capaci di difendere la città da qualsiasi pericolo» (BILE, 2011, p. 30).
L’istituzione della Congregazione venne sancita pubblicamente con una cerimonia tenutasi nel giorno di San Sebastiano, in cui alla benedizione dello stendardo dell’accademia seguì una cavalcata per le vie della città:
A 20 gennaio 1567 – Il giorno di San Sebastiano si benedisse il stendardo dei cavalieri dell’Accademia, e lo accompagnaro con torci la sera per tutta la città, essendo li cavalieri armati di armi bianche, essendo generale l’illustre marchese di Avola, consigliere il signor barone di Fiumesalato et Alfiere il signor Carlo di Marchisi. (PARUTA – PALMERINO, 1869, p. 27)
Quello stesso giorno i cavalieri diedero una prima pubblica dimostrazione della loro abilità in una giostra, organizzata al Piano della Marina (oggi piazza Marina, alla fine di corso Vittorio Emanuele, a Palermo). A quell’epoca, giostre e caroselli rappresentavano le principali occasioni in cui i nobili in armi potevano dimostrare la loro abilità negli esercizi marziali in tempo di pace. Giostre e cavalcate pubbliche svolgevano in questo senso un ruolo sociale e politico essenziale. Nella seconda metà del Cinquecento, la crescente importanza strategica delle armi da fuoco e della fanteria aveva infatti drasticamente ridotto il ruolo militare della cavalleria e alimentava nella nobiltà «la frustrazione che deriva da essere cavalieri di nome ma con scarse possibilità, se non i caroselli e i tornei, di dimostrare al mondo e a se stessi di esserlo nei fatti» (ANTONELLI, 1997, p. 194).
In Sicilia, come d’altronde nel resto d’Europa, le giostre erano molto praticate e avevano finito per trasformarsi in veri e propri spettacoli popolari, tanto da indurre il Senato della città di Palermo a far costruire degli “aringo”, veri e propri anfiteatri effimeri in legno, capaci di contenere sino a venticinquemila persone e con palchi riservati alla corte vicereale e ai rappresentanti del Senato. «Ogni occasione era buona per organizzare questo coreografico spettacolo d’armi: le celebrazioni di una vittoria o di un matrimonio; una pace o un’alleanza per festeggiare un importante avvenimento politico, come la visita di un re o di un principe; ma, talvolta, anche per trovare marito alle donzelle o per consentire ai giovani cavalieri di sgranchire le membra dopo l’inerzia di un lungo inverno e tenersi così in costante esercizio e sempre pronti all’uso delle armi» (MANSELLA, 1972, p. 16). Questi cimenti cavallereschi ebbero il loro culmine nel Cinquecento, ma continuarono a essere praticati, con grande sfarzo, anche nel secolo successivo, come dimostrano le superbe stampe che illustrano questo articolo e che sono tratte dalla relazione dedicata da Pietro Maggio alle giostre tenutesi a Palermo in occasione dei festeggiamenti per le nozze del re di Spagna, Carlo II, con Maria Luisa di Borbone-Orléans, nel 1679. La relazione venne pubblicata nel 1680 con il titolo Le guerre festive (Palermo, per Giuseppe la Barbera e Tomaso Rummulo e Orlando).
Il 10 ottobre del 1567, in una solenne cerimonia pubblica, la Congregazione prese possesso del Palazzo Ajutamicristo, posto ai confini delle mura di Palermo (oggi in Via Garibaldi), non distante dal ponte dell’Ammiraglio. Il corteo era guidato da Ottavio del Bosco, nominato generale della Congregazione, scortato da paggi armati a cavallo, ciascuno recante le insegne del proprio signore. Nel palazzo i cavalieri «riunivansi di mattina per le lezioni di matematiche, di giorno pel maneggio dei cavalli» (NARBONE, 1851, p. 101). Lo statuto della congregazione (di cui Maurizio Vesco ha recentemente pubblicato il frontespizio, in VESCO, 2016) regolava minuziosamente, oltre al comportamento che i cavalieri dovevano tenere in presenza del viceré, anche gli incarichi, le riunioni, le cerimonie e le devozioni e stabiliva i requisiti per gli aspiranti. Gli accademici si esercitavano quotidianamente per due ore nel maneggio, divisi in due classi. La ripresa dei più esperti era aperta al pubblico, mentre gli estranei non potevano assistere a quella dei cavalieri ancora debuttanti (cfr. MAYLANDER, 1926-30, vol. I, p. 523).
Nel 1620 la Congregazione cambiò sede e si vide assegnato un palazzo proprio di fronte al palazzo senatorio, per poter più efficacemente e tempestivamente difenderlo in caso di necessità. In occasione di eventuali allarmi, i cavalieri erano tenuti ad adunarsi, armati di tutto punto, presso il ponte dell’Ammiraglio, e ciascuno doveva condurre con sé un compagno armato allo stesso modo. L’accademia però fu soppressa nel 1636.
Subito dopo la costituzione della Congregazione, i cavalieri che ne facevano parte si rivolsero ad armaioli lombardi, all’epoca tra i migliori in Europa, per rifornirsi di armi da guerra e da parata. Qualche anno fa, l’allora vicedirettore del Museo di Capodimonte, Umberto Bile (scomparso nel 2013) scoprì che i pezzi più pregiati dell’armeria di Capodimonte non erano appartenuti ad Alessandro, o a Ottavio Farnese, come si era ritenuto per almeno due secoli, ma risalivano proprio ai cavalieri della Congregazione palermitana. Alcune tra le armi più pregiate appartenute alla Congregazione erano infatti confluite nella collezione dell’armeria di Canicattì, dove erano state conservate per circa due secoli ed erroneamente considerate risalenti all’epoca di Ruggero I il Normanno (1031 circa – 1101). Nel 1800 Giuseppe Bonnano e Branciforte, principe della Cattolica donò a Ferdinando di Borbone un elmo, uno scudo e una spada, considerate le armi appartenute al “Gran Conte” Ruggero I, conquistatore della Sicilia nel 1062. Bile ha dimostrato che si tratta, con tutta evidenza, di una borgognotta, di una rotella da giostra e di una spada di straordinaria fattura, che costituiscono i pezzi più pregiati e celebri dell’armeria di Capodimonte. Sulla rotella, cioè lo scudo da giostra, in ferro sbalzato, ageminato e dorato, è rappresentato Orazio Coclite che, a cavallo, affronta i nemici, mentre i soldati romani demoliscono il ponte Sublicio, per impedire loro di entrare a Roma. È lo stesso eroe romano evocato dal motto della Congregazione palermitana. La bellezza di quelle armi ci dà un’idea della magnifica eleganza dei cavalieri che si esercitarono nell’accademia siciliana.
BIBLIOGRAFIA
ANTONELLI, Raoul, Giostre, tornei, accademie: formazione e rappresentazione del valore cavalleresco, in AA. VV., I Farnese. Corti, guerra e nobiltà in antico regime, a cura di P. Del Negro e C. Mozzarelli, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 191-207.
HERNANDO SÁNCHEZ, Carlos José, La gloria del cavallo. Saber ecuestre y cultura caballeresca en el reino de Napóles durante el siglo XVI, in AA. VV. Actas del Congreso Internacional: Felipe II (1527-1598). Europa y la Monarquía Católica (UAM, 20-23 de abril de 1998), coord. J. Martínez Millán, Madrid, Parteluz, 1998, pp. 277-310.
MANSELLA; Giovanni Battista, Le giostre reali di Palermo, a cura di R. La Duca, Palermo, Sellerio, 1972.
MARINO, Salvatore Salomone, La Congregazione dei cavalieri d’armi e le pubbliche giostre in Palermo nel secolo 16°: notizie e documenti, Palermo : Tip. di P. Montaina e Comp. gia del Giornale di Sicilia, 1877.
MAYLANDER, Michele, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna-Trieste, Cappelli, 1926-30 (rist. anastatica Bologna, Forni, 1976).
NARBONE, Alessio, Bibliografia sicola sistematica, o apparato metodico alla Storia litteraria della Sicilia, Palermo, stamp. di G. Pedone, 1851.
PARUTA, Filippo – PALMERINO, Niccolò, Diario della città di Palermo 1500-1613, in AA. VV. Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX pubblicati sui manoscritti della Biblioteca Comunale, a cura di G. Di Marzo, Palermo, Luigi Pedone Lauriel editore, 1869.
VESCO, Maurizio, La Regia Razza di cavalli e le scuderie monumentali nella Sicilia degli Asburgo: il modello “negato” delle Cavallerizze dei Palazzi Reali di Palermo e Messina, in AA. VV., Las Caballerizas Reales y el mundo del caballo, Cordoba, Edicioneslitopress, 2016, pp. 391-428.
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