Cavalli che parevan fiamma!
di Giovanni Battista Tomassini
Nel 1565, a Lisbona si tenne una grande festa equestre per celebrare le nozze di Alessandro Farnese con Maria del Portogallo. Una cronaca dell’epoca testimonia le straordinarie qualità dei cavalli e dei cavalieri lusitani, che impressionarono profondamente i dignitari italiani presenti nella capitale portoghese
Sino al catastrofico terremoto e al conseguente tsunami che nel 1755 distrussero la città di Lisbona, nel luogo dove ora si apre la grande Praça do Comérçio – uno dei luoghi più noti e caratteristici della capitale portoghese – sorgeva il Paço da Ribeira, il palazzo reale. Tanto che, sebbene non rimanga nulla dell’edificio distrutto dal sisma, tuttora la piazza è nota familiarmente anche come Terriero do Paço, la piazza del palazzo. L’edificio era stato costruito intorno al 1500 e si stagliava perpendicolarmente al fiume. Si affacciava su una grande piazza, simile per dimensioni all’attuale, dove si tenevano i grandi eventi pubblici della città. Il 28 maggio del 1565 quell’ampia spianata doveva offrire allo sguardo degli spettatori uno spettacolo magnifico. Per giorni, falegnami, tappezzieri e decoratori avevano lavorato senza sosta ad allestire i palchi lungo il lato della piazza aperto sul fiume Tago, che in quel punto è tanto largo da apparire già oceano. I carpentieri avevano costruito ampie e solide gradinate di legno, in parte coperte da baldacchini, che erano poi state tappezzate di stoffe pregiate e decorate con pitture allegoriche. Anche la facciata del palazzo era stata addobbata con sfarzo. Da ogni finestra pendeva un drappo dal colore squillante e i davanzali erano decorati da cuscini e nastri. Due settimane prima, nella cappella reale, l’ambasciatore spagnolo Alonso de Tovar aveva sposato Maria d’Aviz, nipote del re Manuel I, in nome e per conto di Alessandro Farnese, figlio del duca di Parma e Piacenza, Ottavio, e di Margherita d’Austria, sorellastra del re di Spagna, Filippo II, e governatrice dei Paesi Bassi. Dopo i festeggiamenti della prima ora a corte, adesso era venuto il momento della celebrazione pubblica di quelle nozze, che univano la principessa portoghese al rampollo di una delle prime famiglie d’Italia, legata dalla parentela, ma anche da una relazione fatta di paura e di sospetti, alla potentissima corona spagnola. E come in ogni festa pubblica, che celebrasse il potere dell’aristocrazia in quegli anni, i cavalli ebbero un ruolo da protagonisti in quella giornata memorabile.
Conosciamo quegli avvenimenti grazie a Francesco De Marchi, singolare figura d’erudito e avventuriero, al servizio per oltre quarant’anni di Margherita d’Austria. Pur non avendo fatto parte della delegazione che si era recata in Portogallo per accompagnare la principessa a Bruxelles, dove l’attendeva il suo giovane sposo, all’indomani dei festeggiamenti per le nozze (svoltesi per procura in Portogallo e, mesi dopo, di persona, nella capitale belga), De Marchi compose una cronaca dettagliata intitolata Narratione particolare delle gran feste e trionfi fatti in Portogallo e Fiandra nello sposalitio dell’illustrissimo sig. Alessandro Farnese e donna Maria del Portogallo. La cronaca venne pubblicata a Bologna nel 1566. Il suo resoconto ci offre un quadro assai vivido dell’abilità dei cavalieri portoghesi, del pregio straordinario dei loro cavalli e dello sfarzo e della raffinatezza dei finimenti con cui erano bardati.
Come era tipico nella tradizione iberica, la festa cominciò con una grandiosa toirada, un combattimento con i tori. All’inizio gli animali vennero affrontati da gentiluomini a cavallo, che si dimostrarono cavalieri valentissimi. A colpire De Marchi furono però soprattutto le stupefacenti qualità dei cavalli, riccamente bardati e tanto perfettamente addestrati in quel tipo di lotta da sembrare animati da un intendimento quasi umano.
“Hor il principio della festa fu il combattimento di diciassette bravi tori, animali terribili, feroci, e il primo combattimento fu di uomini a cavallo, tutti Cavallieri e gentiluomini di conto, i quali combatterono sopra ginetti riccamente guarniti con una zagaglia per ciascuno in mano da due ferri e con tanta agilità e destrezza et attitudine gli ammazzavano che era una delle belle e degne cose che si potesse vedere, perché non ostante i cavallieri facessero molto bene, i cavalli anco erano così vivi e presti a schifare gli incontri de’ tori, che parevano fiamma e mostravano di avere un certo non so che di sentimento humano” (DE MARCHI, p. 3).
Eppure, nonostante la perizia dei cavalieri e la vivacità dei cavalli, due di loro furono feriti, anche se non gravemente. Ai combattimenti a cavallo fecero quindi seguito quelli a piedi, in cui i tori furono affrontati con spada e cappa. I giovani portoghesi si dimostrarono espertissimi anche in questo tipo di lotta:
“perché venendo il toro alla volta loro gli buttano la cappa sopra alle corna e così, rimanendo quelle bestie accecate, le schifano facilmente e danno loro una gran coltellata, o su’l capo, o su’l naso, o su le gambe davanti, e perché le spade sono oltra modo taglienti si vede subito da circostanti il segno” (DE MARCHI, p. 3).
Pur con tutta la loro abilità, alcuni dei toreri furono però travolti e si salvarono solo perché i tori vennero immediatamente distratti dagli assistenti e i malcapitati furono tempestivamente soccorsi.
Dopo la corrida, la festa proseguì con il “gioco delle canne” e con una “giostra di caroselli”. Si trattava di due cimenti cavallereschi allora molto diffusi. Da tempo ormai i vecchi e brutali tornei, retaggio della cultura cavalleresca medievale, erano stati quasi ovunque sostituiti da giochi equestri meno cruenti, che richiedevano un’equitazione più sofisticata, e permettevano di far brillare le qualità dei cavalieri senza esporli a rischi mortali. Questa tendenza s’andava sempre più affermando dopo che, nel 1559, il re di Francia Enrico II era morto a seguito di un incidente nella giostra che si disputava durante i festeggiamenti del matrimonio di sua figlia Elisabetta con Filippo II di Spagna. Il gioco delle canne e quello dei caroselli erano molto popolari ed erano soprattutto diffusi nella penisola iberica e nei territori europei sotto il dominio spagnolo. In Portogallo, per esempio, questo tipo di giochi equestri continuarono a essere praticati sino a tutto il XVIII secolo, come dimostrano due splendide tavole, del monumentale trattato portoghese d’equitazione di Carlos de Andrade, Luz da Liberal e Nobre Arte da Cavallaria, del 1790. Spagnoli e portoghesi avevano probabilmente mutuato queste prove cavalleresche dai dominatori arabi, come testimoniava l’abitudine di praticarle indossando abiti “alla moresca”.
Nel gioco delle canne, le squadre si schieravano sui lati opposti del campo. Quindi un primo drappello di cavalieri galoppava sino a portarsi a distanza di tiro dagli avversari e scagliava contro di loro delle canne, come fossero giavellotti. Spesso, queste armi fittizie avevano la punta spalmata con una sostanza adesiva, perché restassero incollate alla corazza dell’avversario. A quel punto gli assaliti partivano al contrattacco, inseguendo gli altri, che ripiegavano verso la schiera amica. Quando, a loro volta, erano arrivati nel campo avverso, gli inseguitori scagliavano i loro dardi. La giostra dei caroselli aveva una dinamica simile, solo che i cavalieri si inseguivano scagliandosi dei proiettili di argilla, che gli avversari dovevano evitare con rapidi cambiamenti di direzione dei loro cavalli, oppure proteggendo se stessi e i propri animali con piccoli scudi, generalmente di cuoio.
Come di regola, le prove cavalleresche furono anche quel giorno introdotte da una solenne parata, cui presero parte oltre un migliaio di persone e centinaia di splendidi cavalli, riccamente bardati:
“Entrarono in piazza quattro compagnie di cavallieri sopra cavalli ginetti bellissimi a sedici per compagnia, che sommano in tutto cavallieri sessantaquattro. [qui segue l’elenco dei capi di ciascuna compagnia] Gli altri quindici di ogni compagnia erano tutti gentilhuomini, vestiti di livrea gialla e negra di raso alla moresca; li fornimenti de’ cavalli erano alla ginetta d’argento e d’oro con le staffe dorate e bianche tutte lavorate alla damaschina, con gli sproni all’istessa foggia. I pettorali e le groppiere de’ cavalli erano piene di anella d’argento, con i colari di campanini d’argento e d’oro, con gran fiocchi di seta e d’oro, con le testiere e i morsi tutti dorati, con selle coperte e lavorate d’oro alla moresca, cosa tanto bella e rara che si poteva più disidierare. Ciascun de’ capi delle compagnie si faceva menare a mano innanzi per pompa e grandezza sei grossi cavalli di Andalusia e di Granata, i quali oltra la grandezza e bellezza loro andavano ballando, che pareva davvero che non toccassero terra, con li giaizzi [vale a dire con le bardature, dal portoghese “jaez”], o fornimenti come si chiamano, così ricchi e belli che facevano stimare ogni cavallo un gran denaio; perché vi intraveniva oro e argento battuto e seta et or filato e ferro et argento lavorato alla damaschina con oro et argento commesso e i cuoi erano lavorati d’oro e seta; et certo è che questi cavalli erano così rari che niun pittore, per valente che fosse, gli potrebbe dipingere e ritrar di sua testa di quella beltà e adornezza” (DE MARCHI, pp. 3r-3v).
Com’era tradizione, i cavalieri erano vestiti in abiti alla moresca, con il capo coperto da turbanti ornati di pietre preziose, e portavano targhe, cioè piccoli scudi, di cuoio. Ciascuno di loro era accompagnato da otto staffieri e otto paggi. Alla sfilata iniziale presero dunque parte mille e ventiquattro persone le quali, dopo aver percorso la piazza, si divisero in due schiere contrapposte. Quindi dai due fronti partirono dapprima due coppie di cavalieri, che
“si davano la carica tirandosi le canne con tanta feracità, che parevano dardi lanciati; ma per l’essercitio continuo de’ cavallieri, per l’agilità e destrezza de’ cavalli assuefatti al gioco, venendo il colpo si coprono in maniera leggiadramente sé et il cavallo con la targa di cuoio, che senza lesion trapassando come strali lo schifano e dando volta al cavallo, come se fossero sentati in una seggiuola, ritornano in un attimo indietro” (DE MARCHI, p. 3v).
Dopo le prime due coppie, l’esercizio fu ripetuto prima da quattro cavalieri per parte, poi da sei, quindi da otto, dieci, sino a che non corsero tutti insieme gli uni incontro agli altri. Nel corso del gioco, cavalli e cavalieri si produssero in tali dimostrazioni di destrezza che l’autore annota di considerare difficile che si potessero emulare altrove, sia per la difficoltà di reperire cavalli così perfettamente addestrati, sia di trovare cavalieri così perfettamente esercitati:
“non credo che si possa così facilmente far per tutto per mancamento di cavalli e di fornimenti, senza che bisogna che gli huomini vi siano di gran tempo esercitati, altrimenti non haveria quella gratia e leggiadria che ha in quelle bande” (DE MARCHI, p. 4r).
Nel corso del combattimento simulato i cavalieri sfoggiavano la loro abilità, con prove di autentico virtuosismo:
“Vi erano alcun che, tirando una canna per l’aria innanzi velocissima come uno strale, l’accompagnavano correndo a tutta briglia col cavallo, con tanta prestezza, che avanti che ella cadesse in terra la ripigliavano. Altri con la medesima velocità correndo levava una canna di terra piana con la mano. Altri v’erano che la tiravano per l’aria al cielo, che pareva una saetta che trapassasse le nuvole” (DE MARCHI, p.4r).
Il successivo gioco dei caroselli si svolse con modalità simili al precedente delle canne, solo che i cavalieri si scagliavano contro dei proiettili d’argilla cruda, riempiti di carbone, della grandezza di una piccola arancia. Se i cavalieri venivano colpiti il proiettile andava in frantumi e il carbone di cui era ripieno macchiava i loro vestiti. Accadeva però di rado, dice De Marchi, vista la maestria con la quale i partecipanti sapevano schivare i colpi. La giostra dei caroselli concluse i festeggiamenti che, con esagerazione tipicamente cortigiana, De Marchi giudica
“per gli addobbi, banchetti, balli, suoni, feracità de’ tori, agilità de’ cavalli e cavallieri e beltà de’ fornimenti e livree loro, per il bene combattere a piedi e a cavallo … le maggiori [feste] che già centinaia d’anni si sappiano essere state fatte in Portogallo” (DE MARCHI, p. 4r).
Prima di concludere il nostro articolo vale forse la pena spendere altre due parole su alcuni dei personaggi storici dei quali s’è fatta menzione. A cominciare da Margherita d’Austria (1522-1586) che fu quella “Madama” da cui prende il nome l’edificio che oggi è sede del Senato della Repubblica Italiana e che è appunto noto come Palazzo Madama. Margherita ereditò il palazzo dal primo marito, il duca Alessandro de’ Medici, che aveva sposato nel 1536, ma che venne ammazzato dal cugino Lorenzino, l’anno successivo. A Roma, la “Madama”, come confidenzialmente la chiamavano i romani, si trasferì nel 1538, per sposare, assai di controvoglia, Ottavio Farnese, nipote di papa Paolo III. Lei aveva diciassette anni, lui soltanto quindici. Ci volle un bel po’ perché i due potessero consumare il matrimonio e questo suscitò parecchie illazioni e dicerie. Dopo ben sette anni, il 27 agosto 1545, Margherita diede finalmente alla luce due gemelli, Carlo e Alessandro, che vennero battezzati solennemente nella basilica di Sant’Eustachio, a pochi passi dal palazzo materno. Carlo morì ancora infante, mentre Alessandro (1545-1592) crebbe e divenne uno dei più importanti condottieri e politici del suo tempo. Fu educato in Italia sino all’età di dieci anni, poi venne inviato alla corte del re di Spagna, Filippo II, che era il fratellastro di sua madre. Qui doveva proseguire la sua educazione, ma soprattutto garantire, in qualità di ostaggio, la fedeltà alla Spagna del padre, Ottavio, che aveva la tendenza a cambiare alleanze con una notevole disinvoltura. Quando si trattò di maritarlo, Filippo II negò il permesso al suo matrimonio con una delle figlie del duca di Urbino, per evitare un legame troppo stretto tra due famiglie italiane che avrebbero potuto creargli problemi nella penisola, e gli rifilò una principessa portoghese, considerando la parentela così acquisita assai meno pericolosa per gli interessi della corona spagnola. Infine l’autore del resoconto, Francesco De Marchi (1504-1576). Non solo, benché autodidatta, fu un erudito, architetto militare ed esperto d’artiglieria, ma anche cortigiano, maestro d’equitazione e di ballo, avventuriero scampato ai pirati al largo di Ponza, naufrago alla foce del Tevere. Nel 1535, protetto da un rudimentale scafandro, si immerse nel lago di Nemi, vicino Roma, alla ricerca delle navi di Caligola, che erano effettivamente presenti nelle acque del lago e che furono recuperate solo nel 1929-30, per andare poi distrutte in un incendio nel 1944. La sua ultima impresa la compì a sessantanove anni quando, nel 1573, scalò tra i primi la vetta del Gran Sasso.
(Questo è il testo della conferenza che ho tenuto il 9 settembre 2017, in occasione del Festival Italiano del Cavallo Puro Sangue Lusitano, presso la Tenuta Malaspina a Ornago -MB)
Bibliografia:
Francesco DE MARCHI, Narratione particolare delle gran feste e trionfi fatti in Portogallo e Fiandra nello sposalitio dell’illustrissimo sig. Alessandro Farnese e donna Maria del Portogallo, Bologna, Appresso Alessandro Benacci, 1566.
Giuseppe BERTINI, Le nozze di Alessandro Farnese. Feste alle corti di Lisbona e di Bruxelles, Milano, Skira, 1997.